Idee Informazione, bufale e propaganda

Abbiamo davvero bisogno di una radiotelevisione pubblica europea?

Una sfera pubblica europea si può realizzare al meglio con la creazione di un servizio televisivo pubblico sovranazionale, come è stato recentemente proposto? Roman Léandre Schmidt e Carl Henrik Fredriksson sono scettici: invece di creare un servizio artificiale, l’Ue deve dare incentivi alle emittenti esistenti per permettergli di europeizzare le loro attività.

Pubblicato il 13 Aprile 2017 alle 16:10

In un articolo su Spiegel Online, André Wilkens e Jakob von Weizsäcker chiedono la creazione di un canale televisivo finanziato a livello pubblico, prodotto in e per l’Europa. La loro speranza è che questo progetto dia un importante contributo alla democrazia europea. Wilkens e von Weizsäcker sostengono giustamente che siamo intrappolati in “filter bubble nazionali”: le questioni europee non sono trattate su un piano europeo ma sempre con una prospettiva nazionale, connessi a un interesse particolare. Questo conduce a una ‘cassa di risonanza anti-illuministica’ che i populisti di destra usano a proprio vantaggio e che viene rafforzata dalla digitalizzazione e dagli effetti dei filtri.
Inoltre, al giornalismo di qualità mancano le risorse economiche per contrastare queste evoluzioni, e si trova anche ad affrontare ulteriori pressioni politiche in paesi europei come la Polonia e l’Ungheria. Quindi si accumulano sempre più problemi nella comunicazione, che possono assumere “rilevanza a livello sistemico e minacciare la democrazia”.
Tutto questo è vero. Come scrivono Wilkens e von Weizsäcker, la sfida oggi è infatti “sviluppare un modello lungimirante per i media digitali adatto al contesto europeo”. Dopo tutto: “La democrazia può prosperare a lungo termine solo se accompagnata e monitorata da una sfera pubblica europea”. Ma in cosa consiste questa “sfera pubblica europea” e come dovrebbe essere esattamente un modello televisivo “adatto al contesto europeo”?
Per Wilkens e von Weizsäcker, la risposta è un “servizio televisivo europeo”. Vedono, nella creazione di una simile organizzazione, una dichiarazione d’intenti “per creare un Airbus europeo digitale per la sfera pubblica del continente”. Questa audace analogia è, con tutto il rispetto, assolutamente difettosa. Anzitutto, dà per scontato che l’intero pubblico europeo possa essere pienamente unificato grazie a un progetto di comunicazione di alta qualità che sia al tempo stesso simbolico e sovranazionale, e che c’è bisogno di un progetto simile; in secondo luogo, l’analogia presuppone che ci sia qualcosa di specificamente europeo in Airbus come modello, qualcosa che sia “adatto al contesto europeo” è che Boeing, ad esempio, non potrebbe offrire.
L’unica cosa che rimane da fare è tradurre l’intera progetto nelle 24 lingue ufficiali. Il servizio televisivo europeo dovrebbe cogliere la sfida della diversità linguistica ‘in modo proattivo e quindi approfittare del dinamico sviluppo delle tecnologie digitali di traduzione’. Il risultato: un canale ‘in 24 lingue, sia in digitale sia in analogico, con trasmissioni lunghe o corte, sia serio sia divertente, ma sempre della migliore qualità’.
Davvero? Anche se ci fossero le migliori intenzioni e un budget degno di un Airbus 380, la “sfera pubblica europea” ha poco da guadagnare seguendo questo percorso. Basta un’occhiata alla storia di questi progetti per dimostrarlo: ci sono stati numerosi tentativi di fondare media che ignoravano o, per qualsiasi buona ragione, escludevano la specifica storia dei singoli stati europei, ognuno dei quali possiede un’esperienza storica e dei processi propri nella creazione di preferenze. In ogni caso, tutti i tentativi di questo tipo di creare uno spazio comunicativo unificato per l’Europa è miseramente fallito.
Pensate al ‘primo giornale nazionale d’Europa’, come si definiva The European (1990-1998), il settimanale in lingua inglese lanciato dall’editore britannico Robert Maxwell, o il ‘giornalismo transnazionale a budget basso’ (Marcel Machill) dell’emittente televisiva multilingue Euronews. Entrambi i media producono “eurochiacchere” superficiali, perché devono far ricorso al minimo comune denominatore in ambito di norme linguistiche, esperienze collettive e testimonial. Oppure trasmettono folklore nazionale in 24 lingue. Nessuna delle due varianti attira il pubblico, d'altronde come potrebbero? Non si possono creare spazi di comunicazione transnazionali spargendo media europei in tutto il continente come se fossero ghirlande decorative e poi sperare che qualcuno ne usufruisca.
Wilkens e von Weizsäcker propongono un servizio televisivo europeo immaginandolo come la “spina dorsale della sfera pubblica europea”. Sembra che concepiscano la “sfera pubblica” (al singolare) esattamente come Jürgen Habermas quando descrisse il emergere di questa sfera come una categoria della società borghese negli stati europei nel XVIII e XIX secolo. Tuttavia, ciò è problematico per due aspetti: in primo luogo, le pratiche comunicative della Repubblica europea delle lettere sono state gradualmente sostituite dalla comunicazione di massa centralizzata a livello nazionale, in un processo lungo due secoli. Completare il processo in forma revisionata sotto l’egida di un supermezzo d’informazione europeo entro due anni (entro le elezioni europee del 2019) può facilmente dimostrarsi un progetto colossale.
In secondo luogo, in termini di contenuti, ci si domanda se i processi storici di costruzione nazionale siano compatibili con la creazione odierna di una sfera pubblica europea, come sembrano sostenere Wilkens e von Weizsäcker. Lo stesso Habermas ha in ogni caso preso le distanze in maniera chiara da una simile analogia quando si parla delle sfide contemporanee di fronte alle quali si trova l’Europa:

Una sfera pubblica europea non deve essere immaginata come un ampliamento progettato di una […] sfera pubblica nazionale. La sfera pubblica europea si costituirà soltanto a partire dai network nazionali che si apriranno l’uno all’altro. Habermas descrive abbastanza precisamente come ciò deve accadere: ‘I media nazionali già esistenti dovranno però dare il giusto spazio e commentare correttamente i punti controversi negli altri stati membri [Ue]. Dopodiché potranno svilupparsi punti di vista differenti in ogni paese, basati sullo stesso genere di temi, informazioni e piani, a prescindere dalle loro origini.’
Il risultato sarebbe costituito dalla “formazione collettiva di opinioni e il piano politico che attraversa i confini”. Se si seguisse questo percorso molto più promettente, si potrebbe contare su ulteriori interconnessioni, coincidenze e processi osmotici fra i media e le opinioni pubbliche europee. Si potrebbe continuare a portare avanti uno sviluppo simile sulla base delle strutture e degli attori della comunicazione esistenti, operando tutti maggiormente nel contesto nazionale. In realtà, i prerequisiti per tutto questo sono già presenti: la cosa fondamentale è che esistono (ancora) organi di informazione che svolgono un lavoro eccezionale. È dunque con questi organi che bisogna lavorare per europeizzare ulteriormente il panorama mediatico.
Tuttavia, bisogna riconoscere che gli strumenti usati finora e il passo a cui si sono mosse le cose negli scorsi anni è lungi dall’essere sufficiente se si vuole realizzare questo obiettivo nel prossimo futuro. È anche vero che, in alcuni paesi europei, il problema non è tanto il fallimento dell’europeizzazione dei rispettivi panorami televisivi, quanto piuttosto l’assenza di attori della comunicazione indipendenti. Questo non vale solamente per stati con governi autoritari come Polonia e Ungheria ma anche per alcune parti del sud-est europeo.
Entrambi i problemi possono essere risolti con una sola iniziativa? Wilkens e von Weizsäcker ovviamente ne sono convinti: sostengono che il loro servizio televisivo europeo promuoverà l’europeizzazione di uno spazio di comunicazione basato sui mezzi d’informazione – in altre parole, creare una sfera pubblica europea – e al tempo stesso interverrà nei contesti autoritari. Anche qui però lo scetticismo non può mancare. Il rischio è che un servizio televisivo che cerca al contempo di essere una “Radio Europa Libera 2.0” finisca per rafforzare ulteriormente la percezione di un’Unione europea come dittatore benigno e rendere dunque alla ‘sfera pubblica europea’ un pessimo servizio.
Dunque che cosa si deve fare? Agire in una maniera specificamente europea, in particolare nel settore mediatico, significa rispettare il principio di sussidiarietà. Nel peggiore dei casi, fondare un super-medium al di sopra delle infrastrutture esistenti potrebbe danneggiare quelle stesse infrastrutture. Invece, le istituzioni europee dovrebbero accordarsi entro il 2019 su un efficace sistema di supporto che fornisca consistenti incentivi agli organi di informazione esistenti, già apprezzati dai loro rispettivi spettatori, che li aiuti a europeizzare le loro attività.
Inoltre, è proprio in quei paesi in cui il giornalismo indipendente può realizzarsi solo accettando di affrontare grosse difficoltà che non si può far altro che sostenere le iniziative locali e favorire il loro coinvolgimento nelle reti europee.
Dovrà essere un’autorità indipendente a prendere la decisione di sostenere una cooperazione mediatica transnazionale. La procedura dovrà essere trasparente ma anche semplice e rapida, e i termini e le condizioni specifiche dovranno essere discussi in maniera esaustiva. La condizione fondamentale per raggiungere il successo che non verrà mai ripetuta abbastanza: l’Unione europea deve superare la sua paura di un giornalismo europeo indipendente.
Finora, la linea politica europea in materia mediatica è caratterizzata solo in base a bandi di gara, ai quali gli attori mediatici devono rispondere. I vincitori sono poi messi alla mercé della Direzione genrale, per quanto possa essere illuminato questo specifico settore dell’apparato amministrativo europeo. Invece, un modello di supporto che sia fortemente difeso dall’influenza politica sarebbe ben più preferibile.
Una struttura simile potrebbe andare incontro a molte delle proposte ragionevoli di Wilkens e von Weizsäcker in tema di finanziamento e diffusione: ad esempio, un “finanziamento europeo di base” pagato dalle aziende informatiche potrebbe essere concepibile, e vale la pena tenere in considerazione un obbligo di trasmissione per alcuni format preferiti su grandi piattaforme digitale. Come per l’idea del “servizio televisivo europeo”, l’approccio decentralizzato che descriviamo qui costituisce un’enorme sfida in termini di europeizzazione dei media di qualità già ben consolidati fra il pubblico europeo. Le prospettive di successo sono incerte, ma almeno non sarebbe predestinato al fallimento.

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