Nel paese di montagna dove cerco rifugio dal caos cittadino, il capolinea dell’autobus è davanti alla taverna, dove finisce la strada. D’inverno la luce del sole è bloccata dai pendii scoscesi che sovrastano le case. A volte sembra un luogo isolato non solo dalla città, ma dall’Europa intera.
Nel gennaio del 2009, pochi mesi dopo l’ingresso della Slovacchia nell’eurozona, mi trovavo qui. Ricordo che il proprietario della taverna mi chiese 50 centesimi per una pinta di birra (il prezzo è ancora lo stesso), osservò divertito la moneta e poi la gettò nel registratore di cassa con la tranquillità di un uomo che non si lascerebbe sorprendere da nessun cambiamento storico.
Quello slovacco si considera un popolo adattabile, testimone passivo di secoli di storia e perfettamente in grado di sopravvivere ai vari imperi che l’hanno dominato (ungherese, tedesco e russo). L’Unione europea è stata il primo impero a cui gli slovacchi hanno aderito volontariamente e al costo di una dura fatica. Leggi l'articolo intero su Internazionale.it