Analisi De-privatizzare Internet

Il profitto sta uccidendo internet. Possiamo ancora salvarla? 

Se non era ancora chiaro, il Covid lo ha reso evidente: Internet è non solamente un luogo per socializzare o divertirsi, ma una infrastruttura necessaria per lavorare, studiare e/o occuparsi di questioni amministrative. Ma Internet oggi non è uguale per tutti: la filosofia di apertura e condivisione che ne ha permesso nascita e sviluppo è stata soffocata da profitto e privatizzazione.

Pubblicato il 24 Maggio 2023 alle 12:56

L’Internet degli inizi faceva pensare ad un avvenire radioso. Quando è cambiata la situazione? Non c’è una risposta che metta tutti d’accordo. Nel 2011, la Primavera araba è stata considerata una rivoluzione dei social media, sembrava che il potere “democratico” di internet potesse consentire agli attivisti e ai cittadini di far cadere i dittatori; nello stesso periodo, WikiLeaks dimostrava il potenziale della rete come strumento per influire sulle azioni della politica.

Tutto questo ha permesso all’informazione di diffondersi rapidamente; contemporaneamente sono nati alcuni siti, per certi versi controversi, come Gigapedia e Sci-Hub con lo scopo di  democratizzare la conoscenza, consentendo a studiosi e studenti universitari dei paesi del Sud del mondo di accedere a libri e articoli che sarebbero rimasti protetti dietro i paywall dei monopoli editoriali.

Questi esempi sono però tutt'altro che rappresentativi di internet, del suo potere e della sua influenza nel complesso. Non solo internet non è stata all'altezza delle speranze, ma per alcuni attori è stato un mezzo per arricchirsi ulteriormente e reprimere comunità già emarginate.

L"etica open-source" del pubblico 

Il libro del giornalista statunitense Ben Tarnoff, Internet for the People [non tradotto in italiano, ndr], comincia con una valutazione storica e materiale di internet: ci spiega come le decisioni politiche (siano esse a favore della forza militare nel contesto della Guerra Fredda o della competitività economica negli anni Novanta), così come l'infrastruttura e l'ubicazione fisica dei computer e dei cavi, giochino un ruolo importante nel determinare il modo in cui miliardi di computer comunicano tra loro e, a sua volta, come la “rete delle reti” plasmi il funzionamento della società. 

Internet for the people, Ben Tarnoff
Ben Tarnoff è uno scrittore, lavora nel settore IT ed è cofondatore Logic Magazine. Ha scritto sul New York Times, Guardian, New Republic, e Jacobin.

Internet, così come la conosciamo, non sarebbe potuta nascere senza denaro pubblico e, infatti, esistono, ancora numerosi contratti tra l'apparato militare statunitense e la Silicon Valley.

Dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Ottanta, o anche oltre, il settore privato non avrebbe infatti potuto assumersi il rischio assunto dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) negli anni Sessanta e Settanta e impiegare la manodopera necessaria per realizzare questo progetto. 

Sostenuta dalla prospettiva a lungo termine fornita da un'agenzia governativa degli Stati Uniti e libera dalle pressioni del mercato, la prima internet è nata da un processo di co-creazione fruttuoso che ha visto collaborare per decenni migliaia di ricercatori. 

Sebbene alcuni libertariani possano vedere questo percorso come uno spreco di denaro pubblico, Tarnoff sottolinea che la proprietà pubblica e il finanziamento del progetto hanno avuto due grandi vantaggi: da un lato lo hanno messo il progetto al riparo da imperativi irrealistico di redditività e, dall'altro, la DARPA "ha imposto un'etica open-source", il che significa che i ricercatori che lavoravano al progetto condividevano i codici sorgente di tutte le loro creazioni, permettendo così ad altri di contribuire e di stimolare la creatività.

Negli anni Ottanta un'altra istituzione pubblica, la National Science Foundation, è stata coinvolta nel progetto, con l'obiettivo di portare online un maggior numero di persone, al di fuori delle reti militari e sperimentali: in questo modo venne creata la NSFNET, la base di una nuova rete nazionale dalla quale passavano le principali rotte di dati che interconnettevano le reti che costituivano la spina dorsale di internet.

Privatizzazione e accesso in vendita

La privatizzazione di questa rete, fino ad allora fortemente sovvenzionata, era stata sì prevista, ma è avvenuta in una forma più estrema di quello che si era pensato. Nel 1995, NSFNET ha interrotto l'operatività della propria rete dorsale e ne ha dato l’accesso agli operatori privati. L'idea era quella di creare le condizioni di parità e preparare il terreno per la concorrenza tra i fornitori di servizi. Il problema? Visto che solo poche aziende avevano i mezzi per gestire una rete di quel tipo, l'ex monopolio statale si trasformò in un oligopolio di cinque società di telecomunicazioni. 

Nel nuovo millennio, a queste si sono aggiunti giganti della tecnologia come Alphabet (la casa madre di Google) e Meta (Facebook), che hanno investito massicciamente in cavi sottomarini e nella creazione di infrastrutture proprie. Queste società, così come i fornitori di accesso (che vendono poi la connessione ai privati) sono diventati di fatto padroni di una rete non loro e, soprattutto, non hanno reinvestito i guadagni di questi accessi in infrastrutture migliori. Così, il servizio fornito ai consumatori si è deteriorato con il tempo.

Perché la concorrenza non ha mantenuto le sue promesse? Secondo Tarnoff, l'accesso a internet è ancora trattato come un bene di lusso, sebbene sia diventato essenziale per la vita dei cittadini, così come la casa e l'assistenza sanitaria: internet è "qualcosa che le persone non possono scegliere di non consumare". Se prima non era chiaro, la pandemia lo ha reso palese: internet non è solo un luogo di socializzazione e di svago, ma è diventata una infrastruttura essenziale per lavorare, studiare e occuparsi di questioni amministrative. 


Internet è "qualcosa che non si può scegliere di non consumare"


In questa situazione, la concorrenza è vantaggiosa per i clienti di fascia alta che possono pagare un costo supplementare per una migliore qualità del servizio; chi ha reddito basso non può accedere o accede “male”, mentre coloro che vivono in zone remote, dove le infrastrutture sono costose, sono considerati clienti troppo onerosi da soddisfare.

La digitalizzazione mancata dell’Ue

Questo problema è fin troppo noto in molti stati membri dell'Ue, dove le aree rurali non riescono a sfruttare i vantaggi della digitalizzazione. Nel 2021, la Commissione europea stimava che "solo il 60 per cento delle famiglie rurali dell'Ue ha accesso a internet ad alta velocità, rispetto alla media totale dell'Ue, che tocca l'86 per cento". In Germania  persone che vivono lontano dai centri urbani (soprattutto nella parte orientale del paese) hanno dovuto continuare ad andare in ufficio, poiché i vecchi cavi di rame non rendevano possibile lavorare da casa. Ancora una volta, la ragione sembra essere la privatizzazione del settore delle telecomunicazioni: mentre servire gli utenti dei centri urbani con cavi in fibra ottica è stato ritenuto abbastanza redditizio dai fornitori, estendere questo servizio alle popolazioni rurali non lo era.

In alcune regioni lontane dai centri urbani degli Stati Uniti, le reti comunitarie di proprietà pubblica o cooperativa sono intervenute per fornire accesso a internet ad alta velocità a comunità che altrimenti sarebbero rimaste isolate. Nelle zone rurali del North Dakota, ad esempio, una manciata di aziende rurali si sono unite, con l'aiuto di sussidi statali, per creare le basi di una rete in fibra. A Detroit, una città in cui il 60 per cento delle famiglie è considerata a basso reddito, l'Equitable Internet Initiative (che si basa su doni di privati) fornisce  accesso a internet gratuito o a basso costo a chi ne ha bisogno. 

Mentre le grandi aziende fanno di tutto per sabotare l'espansione delle reti comunitarie, negli Stati Uniti la questione potrebbe addirittura diventare politica e questo grazie alle promesse fatte alle presidenziali del 2020 dai candidati democratici Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Ma perché la questione diventi veramente centrale e di pubblico dominio  è necessario trovare finanziamenti sufficienti per le reti di proprietà pubblica o cooperativa. Tarnoff vede tre possibili modi: una differenziazione tariffaria per internet a seconda del reddito, una tassa sui servizi digitali per Alphabet e Meta, o una tassa sul "cartello della banda larga", ovvero i fornitori di accesso, che traggono grandi profitti nonostante i servizi scadenti o non sempre all’altezza.  

Negli anni Duemila le grandi aziende che dominano il mercato di internet sono diventate le cosiddette “piattaforme” passando dall’idea di accesso a quella di monetizzazione dell’attività. Il fatto di chiamare i loro servizi “piattaforme” (come nel caso di Meta e Alphabet) permette loro di presentarsi come spazi aperti e neutrali che servono a sostenere le attività degli utenti, in una prospettiva collettiva e per un bene più grande (come hanno fatto con le rivolte pro-democratiche), mentre  cercano di influenzare e trarre vantaggio da ogni attività e presenza online.

Tarnoff osserva che eBay è stato il primo attore importante (e relativamente piuttosto benigno) a capire che internet non era solo una vetrina, ma un mezzo “sociale” e ha così offerto agli utenti un mercato “comunitario”. Invece di cercare di vendere aggressivamente un prodotto, eBay (e il suo predecessore AuctionWeb) funzionava in apparenza solo da mediatore tra acquirenti e venditori, e svolgeva gratuitamente molte attività che facilitavano le vendite. Erano gli utenti a valutare l'affidabilità reciproca o a darsi consigli sull'uso o sulla spedizione dei prodotti. Come per le piattaforme successive dello stesso tipo, il suo fondatore Pierre Omidyar trasse un notevole profitto dagli effetti di rete che il sito creava: più utenti non paganti aveva, più il sito acquista valore.

Con il tempo, al ruolo di mediatore (o "intermediario") e beneficiario degli effetti di rete si è aggiunto un ruolo un po’ da “sovrano”: i comportamenti andavano gestiti, tramite regole e algoritmi, per evitare le frodi e aumentare la redditività. Per questo eBay, uno dei pochissimi sopravvissuti all'esplosione della bolla di internet del 2000-2001, è diventato un modello per molte delle piattaforme successive.


Nonostante ai gruppi emarginati vengano offerte maggiori opportunità di partecipazione all'ambiente digitale rispetto al mondo pre-piattaforma, il loro sfruttamento perdura grazie a queste nuove condizioni


Alla fine degli anni Duemila, e soprattutto negli anni 2010 e 2020, i fornitori di servizi di piattaforma come Google, Facebook, Twitter o TikTok hanno di fatto creato dei "centri commerciali" online sempre più sofisticati: gli utilizzatori possono interagire sempre di più, ma in un ambiente sempre più controllato, spesso senza rendersi conto di essere guidati da algoritmi o "moderatori" umani, mentre quasi tutte le loro attività generano dati che possono essere monetizzati. Come dice Tarnoff, "i dati sono il loro principio organizzativo e l'ingrediente essenziale".

I mali dell’internet dei “centri commerciali”

Le enormi quantità di dati raccolti da questi "centri commerciali" online sono alla base dell’evoluzione di una serie di nuove pratiche commerciali su internet. Pur essendo spesso basati su intrusioni nella privacy degli utenti, sulla raccolta e lo stoccaggio di dati e su servizi non sempre chiari e trasparenti, questi "centri commerciali" online sono riusciti ad attrarre investimenti da parte di grandi aziende. L'esempio più parlante? I servizi pubblicitari basati sul target personalizzato. 

Nonostante i dati sulla crisi di attenzione online, Google, Facebook e un piccolo numero di altri giganti tecnologici hanno un quasi monopolio sui ricavi pubblicitari a livello mondiale. Un altro caso noto è quello di Uber, la società di trasporto e consegna a domicilio, i cui servizi hanno trasformato i lavoratori in “schiavi” pagati e controllati da algoritmi. L'azienda continua a perdere miliardi di dollari ogni anno, ma gli investitori continuano a investire.

Lontano dall'empowerment, dall'accesso democratico e dalla connessione orizzontale promessi all'inizio, nell'internet delle piattaforme la maggior parte dell'inclusione è di fatto predatoria. Ciò significa che, sebbene ai gruppi emarginati vengano offerte maggiori possibilità di partecipazione all'ambiente digitale rispetto al mondo pre-piattaforma, il loro sfruttamento continua grazie a queste nuove condizioni, poiché molti dei rischi che prima erano assunti dai datori di lavoro ora sono a carico dei dipendenti. Chi lavora per Uber, per le aziende che consegnano cibo a domicilio o per altri attori dell'economia delle piattaforme, ad esempio, perde la maggior parte delle tutele, in quanto viene considerato un subappaltatore autonomo, quando al contrario è costantemente sottoposto a un algoritmo e a regole che non può dettare autonomamente.

Un altro aspetto predatorio delle piattaforme emerge quando ci si interroga sul "chi" del coinvolgimento nelle piattaforme, non solo sul "come". I social media danno voce e spazio ai contenuti razzisti, la propaganda e le teorie del complotto perché sono questi i contenuti che  generano più traffico e coinvolgimento. 

Possiamo risolvere il problema?

Tarnoff ritiene alla base di questa situazione ci sia la svolta for-profit di internet, descritta nel suo libro. Questa dinamica ha plasmato il modo in cui gli attori online dominanti si sono comportati negli ultimi due decenni. Per cambiare, è necessario affrontarne le cause profonde, in modo che gli utenti/cittadini possano finalmente partecipare in modo significativo all'ambiente online.

Come possibili soluzioni, Tarnoff raccomanda misure per addomesticare internet e creare veri e propri spazi pubblici. Il buon senso suggerirebbe di creare nuove regole o di ridurre il potere di mercato degli operatori dominanti.

Sotto il presidente Joe Biden, due sostenitori di un rafforzamento dell'applicazione delle norme antitrust hanno guadagnato importanza negli Stati Uniti: la studiosa di diritto Lina Khan è stata nominata presidente della Federal Trade Commission e l'avvocato antitrust Jonathan Kanter è diventato assistente del procuratore generale del Dipartimento di Giustizia. 

Nell'Ue, a capo della direzione generale della concorrenza della commissione europea, c’è Margrethe Vestager: negli ultimi anni Vestager ha cercato di limitare il potere di mercato dei giganti tecnologici. Sebbene non sia sufficiente, il Digital Services Act dell'Ue ha inasprito le regole per i grandi operatori online. Tarnoff ritiene inoltre che le misure antitrust, anche se ben concepite, non bastino, perché finiscono per aumentare la concorrenza sul mercato tecnologico, peggiorando la situazione. 

Un leggero aumento del numero di attori può innescare una "guerra della sorveglianza", uno scenario nel quale le piattaforme faranno di tutto per aumentare la quantità di dati che possono essere estratti dagli utenti, minando qualsiasi sforzo di moderazione dei contenuti o iniziative che potrebbero migliorare la vita delle comunità online.

La risposta scelta da Tarnoff è la de-privatizzazione di internet che, basandosi su alcune misure antitrust, fornirebbe alternative alle piattaforme attuali. Tarnoff immagina un’internet popolata da un insieme di piattaforme decentralizzate, i cui server vengono gestiti in modo indipendente, ma potrebbero essere interconnessi attraverso protocolli aperti. Un esempio di questo modello è il social network Mastodon, o le comunità online su piccola scala che l’attivista Ethan Zuckerman sta sperimentando presso l'Università del Massachusetts.

L'obiettivo? I membri di ogni comunità potrebbero decidere in maniera autonoma le regole che guidano le loro interazioni, secondo regole della comunità stessa e sulla base di dati propri. Si tratterebbe di un nuovo approccio a internet, in cui gli utenti diventano veri e propri co-creatori.

Per quanto questo esperimento possa sembrare allettante, per ora è difficile capire come questa internet possa diventare realtà. I politici, sia in Europa che negli Stati Uniti, hanno chiesto lo smantellamento dei monopoli tecnologici; Joe Biden ha parlato apertamente dei giganti tecnologici che contribuiscono all'eccesso di morti nella pandemia e il parlamento europeo ha dato spazio alla whistleblower di Facebook Frances Haugen… eppure la posizione dei giganti tecnologici resta incontrastata su entrambe le sponde dell'Atlantico. Queste aziende hanno un potere lobbistico eccessivo: Alphabet, Meta o Amazon si adegueranno alle regole dalle autorità di regolamentazione solo finché queste saranno in accordo con i loro profitti. 

Proposte legislative come il Digital Services Act possono aiutare la situazione,  ma non cambiano le carte in tavola. A lungo termine, i politici, i responsabili e i filantropi devono andare oltre e fare quello che si fa a livello di base, ovvero unire le forze con gli attivisti tecnologici e riconoscere l'importanza di investire nell'alternativa: servizi online governati democraticamente che possono portare a quello che Tarnoff chiama "un’internet in cui i mercati contano meno".

👉 L'articolo originale su Green European Journal

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