Cameron sempre più in bilico

Il premier sperava che la promessa di un referendum sull’appartenenza all’Ue avrebbe calmato gli euroscettici nel suo partito. Ma la tensione aumenta e l’esito della consultazione è sempre meno scontato.

Pubblicato il 13 Maggio 2013 alle 16:04

L’incoerenza politica è spesso espressione di complessità radicate molto a fondo. A maggior ragione nel caso di una coalizione. Questa settimana è assai probabile che si chieda un emendamento per rimproverare l’assenza nel discorso della regina di un riferimento al referendum sull’Ue, e che ciò porti a un risultato quanto mai singolare.

Per come stanno le cose, i backbencher conservatori si vedranno garantire un libero voto sulla mozione messa sul tavolo da due di loro, John Baron e Peter Bone, mentre i membri del governo si asterranno. Tuttavia, si prevede che alcuni ministri liberaldemocratici complicheranno ancor più le cose votando contro, come del resto le loro convinzioni filo-Ue impongono.

La risposta dal numero 10 di Downing Street ha assunto una forma confuciana: “Quando vedi entrare un topo in una stanza puoi dire ‘C’è un topo’ o puoi saltare su un tavolo e metterti a strillare”. Penso che si possa affermare che in questo enigma il topo è il referendum sull’Ue o forse l’emendamento stesso, e che ‘strillare’ alluda a tutto il clamore che la politica e i media stanno facendo in proposito.

L’avversione del primo ministro per il panico indubbiamente gli è tornata utile nel corso degli anni, non ultimo nell’insulsa confusione del governo di coalizione. I sostenitori di Cameron hanno ragione a deplorare il fatto che alcuni del loro partito si comportano come se i Tory non facessero parte della coalizione e i Lib-Dem potessero essere bellamente ignorati.

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A preoccupare Cameron dovrebbe essere la resiliente mancanza di fiducia tra lui e un significativo nucleo di ostinati parlamentari conservatori. Quando loro pretendono un disegno di legge con una proposta di referendum in sostanza dicono: capiamo tutto quello che dite su Clegg e i Lib-Dem, e quello che potete e non potete fare, ma anche così – scusa tanto, amico – lo vogliamo messo per iscritto.

In questa circostanza, è degno di nota che il discorso di gennaio del primo ministro sui rapporti del Regno Unito con l’Ue – nel quale prometteva di indire il primo referendum dal 1975 sulla nostra adesione all’Unione – abbia avuto un impatto così trascurabile sul dibattito che si presumeva dovesse placare, o sull’ascesa dell’Ukip, il partito britannico per l’indipendenza. Secondo una fonte del governo “il fatto è che la gente non si fida di noi”.

Quella che Alastair Campbell, consigliere di Tony Blair per i media, una volta definì “questa roba enorme sulla fiducia”, è da tutti i punti di vista la vera forza unificante. La sensazione che Cameron abbia infranto la sua stessa “garanzia di ferro” di indire un referendum sul trattato di Lisbona ha aggravato il terribile lascito delle spese dei parlamentari, Iraq, menzogne, sordidi dettagli e molto altro ancora.

Questa è un’epoca di fragilità istituzionale: il parlamento, la stampa, la finanza, la Bbc, sono rimasti tutti danneggiati dagli scandali. Mai prima d’ora i politici erano stati a tal punto soggetti a uno scrutinio continuo: gli strumenti della rivoluzione digitale hanno il paradossale effetto di costringere all’onestà coloro che governano, riducendone però la fiducia presso chi è governato.

In questo scenario, le melliflue élite della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI paiono già obsolete. Quanti puntano il dito su Boris Johnson o Nigel Farage, accusandoli di non sembrare uomini di governo, stanno soltanto sostenendo le loro credenziali e cercando di affascinare i loro elettori. Il sindaco di Londra e il leader dell’Ukip vanno a gonfie vele proprio perché hanno la pratica sincerità dei dilettanti, sono esseri umani veri non allevati in laboratorio, e dicono quello che pensano invece di fare i pappagalli seguendo “la linea”.

In realtà, naturalmente, entrambi sono politici fino alla punta dei capelli. Boris è il sindaco al suo secondo mandato di una città globale che l’anno scorso ha ospitato le Olimpiadi, mentre Farage sta mettendo a punto un’abile strategia di guerriglia elettorale che lascia intuire talenti che vanno al di là del fascino da bar e dell’eleganza del suo Barbour. Entrambi, tuttavia, capiscono benissimo che un elettorato quanto mai sospettoso apprezza l’autenticità più di qualsiasi altra cosa.

Oltre allo storico crollo della fiducia, Cameron deve affrontare un non meno drammatico cambiamento nei presupposti stessi e nelle fortune dell’Ue. Come Hugo Young sostenne nel suo magistrale resoconto sui rapporti tra il Regno Unito e l’Europa, This blessed plot, gli euroscettici sono sempre stati soggetti all’accusa di “mancanza di realismo”. Nel 1998 Young scriveva infatti: “Il mondo che essi difendevano sembrava, in definitiva, nostalgico e angusto: assediato dai demoni, lacerato dalla confusione esistenziale”.

Il mondo, non l’Europa

Ma a distanza di 15 anni il loro mondo e quello dell’Ue appaiono molto diversi. Il continente è lacerato dalla crisi della zona euro, e non è più così facile sostenere che fuori dall’Ue il Regno Unito soffrirebbe a livello economico. Come ha scritto Lord Lawson la settimana scorsa sul Times, “Il nocciolo del problema è che oggi il contesto economico più importante non è l’Europa, ma la globalizzazione, compreso il libero commercio globale, con l’Organizzazione mondiale del commercio che lo monitora”.

Lawson è vicino a George Osborne, e il suo articolo riflette opinioni che, se è lecito presumere, egli ha già discusso con i conservatori di spicco all’interno della coalizione. Un articolo di Michael Portillo pubblicato sul medesimo giornale era ancora più incandescente e ostile in modo ancora più palese nei confronti della posizione di Cameron, oltre a essere, in stile latino, ancora più sprezzante nei confronti della leadership odierna dei conservatori.

In tempi simili, ci si ricorda che Portillo è non soltanto il padre della modernizzazione dei Conservatori, ma è stato anche un fedele discepolo della Lada di ferro, l’ex premier Margaret Thatcher. Sostenendo che tra le ambizioni del Regno Unito e quelle dell’Ue c’è una “discrepanza fondamentale”, che non è possibile “ricomporre per mezzo di una piccola rinegoziazione”, credo che egli abbia parlato per la maggioranza dei parlamentari Tory e per una percentuale in forte aumento della popolazione. La formula migliore di Cameron è che il Regno Unito è impegnato in una “competizione globale”. Di mese in mese diventa sempre più difficile sostenere che la nostra adesione all’Ue sia un vantaggio, invece che un ostacolo alla nostra performance in questo ambito.

Questo primo ministro, seppur sottovalutato, ha offerto all’opinione pubblica un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Ue. Ma la sua promessa di un nuovo accordo, un nuovo inizio per il quale valga la pena attendere prima di decidere, ha avuto poco mordente e ha conquistato solo poche adesioni. Agli occhi di troppe persone, infatti, pare un compromesso invece che qualcosa di razionale. L’emendamento di questa settimana è soltanto uno dei molti interventi, stratagemmi e acrobazie che egli può attendersi, tutti miranti a incalzarlo, a farlo correre oltre, più velocemente, sulla questione cruciale dell’identità della nazione.

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