East Side Gallery (muro di Berlino). Brozzi/Flickr

L’inganno dell’unità

Troppo intenti ad adattarsi a una nuova società, i tedeschi dell’est non hanno potuto saldare i loro conti con la Ddr. E difficilmente si potrà aprire un vero dibattito senza mettere in discussione il mito della riunificazione, osserva lo scrittore Thomas Brussig. 

Pubblicato il 6 Novembre 2009 alle 17:06
East Side Gallery (muro di Berlino). Brozzi/Flickr

È da quando la scrittura mi ha reso noto al grande pubblico, cioè dal 1995, che continuo a ripetere che il dibattito sulla Ddr è rimasto a un punto morto o, per essere più precisi, è stato soffocato dall’unità tedesca. La vita di quasi tutti i tedeschi dell’est è cambiata completamente ed era molto difficile poter discutere dell’”altra epoca” senza prima aver sottoscritto le assicurazioni necessarie, conoscere i colloqui di lavoro, sapere che cos’è un imprenditore privato. Per molti tedeschi dell’est la vita dopo la caduta del muro è stata talmente travolta da questi aspetti poco romantici, che qualunque considerazione retrospettiva era controproducente. Per questo ho cominciato a studiare la sociologia per farla finita una volta per tutte con quello che Neues Deutschland [l’organo di partito] mi aveva inculcato.

Solo chi non trovava il suo posto nella nuova società, troppo diversa, poteva permettersi il lusso di pensare alla Ddr – un paese in cui tutti i problemi che non si riuscivano a risolvere non esistevano. È in questo momento che la nostalgia per la Ddr ha cominciato a manifestarsi e si è diffusa rapidamente, visto che molti non erano riusciti ad adattarsi e avevano una vita insoddisfacente. Il loro numero era molto più grande di quello che si immaginava in Germania ovest, e non si trattava solo di ex agenti della Stasi o di altre organizzazioni comuniste. Alcuni anni dopo il fotografo Joachim Liebe ha ritrovato le persone che erano passate per caso davanti al suo obiettivo nell’autunno 1989 e ha parlato con loro. Sulle dieci persone fotografate che hanno accettato di farsi intervistare, una sola ha dichiarato di avere una vita soddisfacente. Gli altri fanno quello che possono, si barcamenano e stringono i denti. E, ripeto, non si tratta di gente che è stata costretta a dimettersi delle sue funzioni, ma di manifestanti che avevano partecipato alla caduta della Ddr. Di tutti noi tedeschi dell’est uno solo poteva diventare cancelliere, ma l’unità avrebbe dovuto permetterci una migliore percentuale di successo.

Dal 1995 non vedo alcuna possibilità di avviare un vero dibattito sulla Ddr, un dibattito simile al regolamento di conti che i sessantottini hanno avuto con i loro genitori a proposito del nazismo. La Ddr non ha lasciato degli interrogativi così pressanti e mostruosi come il Terzo Reich, non ha condotto una guerra di aggressione e non ha compiuto un genocidio. La cosa peggiore che le si può rimproverare è di essere rimasta in vita così a lungo. Tanto più che non bisogna sottovalutare il fattore demografico: se nel 1968 è un’intera generazione che ha chiesto delle spiegazioni, oggi è solo un quinto della generazione studentesca che interroga i propri genitori: il resto non aveva nulla a che vedere con la Ddr.

Ma a quanto pare la questione non è stata affrontata in profondità, poiché le personalità politiche hanno subito preferito fare ricorso alla retorica. Oggi ci si limita alle formule di “stato di non diritto”, di “regime totalitario” o di un “paese composto solo da gente cattiva”. Questo dibattito presenta però almeno due aspetti nuovi e degni di essere presi in considerazione: in primo luogo l’ovest deve accettare di essere guardato e giudicato dall’est – finora era sempre il contrario – con la caduta del muro, l’est ha avuto finalmente la libertà di ripensare e di ridefinire se stesso; in secondo luogo sembra aver capito che gli strumenti con i quali si è affrontato il terzo Reich non servono a molto per la Ddr.

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L’ovest, anche se consapevole della sua anticostituzionalità, ha preferito conservare la Legge fondamentale del 1949, affermando che non era il momento di lanciarsi in “esperienze avventurose”. La capitale è stata trasferita a Berlino ed è stato varato il patto di solidarietà, ma a parte questo lo slogan è stato: all’ovest niente di nuovo. Riunificazione? Una sola parola e due menzogne al tempo stesso. Infatti non c’è mai stata una vera e propria “riunificazione”, perché la Germania delle frontiere del 1990 non era mai esistita in passato. E un’adesione non è un’unificazione. “Il capitalismo non ha vinto”, proclamava un graffito del 1990, “è che non c'è più nient'altro”.

La questione dell’unità tedesca è un campo minato. A est il trauma dell’unità e le sue conseguenze rimangono il problema principale; a ovest si preferisce invece non parlarne. Come se né l’est né l’ovest fossero riusciti a trovare in questa unificazione un elemento di felicità. Eppure l’unità era stata accompagnata da tanta speranza e tanta fiducia, tanti sentimenti positivi nei confronti del prossimo.

A ogni generazione la sua rivoluzione. C’è stato il ’68, c’è stato l’89, è quasi ora che arrivi la prossima. E questa volta si potrà mettere sul tavolo quello che nel 1990 è stato nascosto sotto il tappeto.

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