La fabbrica della Ford a Dearborn, Michigan (AFP)

L'umanità al bivio

Il vertice di Copenaghen sul riscaldamento globale rischia di fallire per la miopia di una civiltà che non riesce a imporsi dei limiti. L'appello dell'ecologista britannico George Monbiot.

Pubblicato il 17 Dicembre 2009 alle 17:05
La fabbrica della Ford a Dearborn, Michigan (AFP)

È arrivato il momento di guardarci in faccia. Qui, nei corridoi rivestiti di linoleum, tra le poltrone affollate, in mezzo a testi incomprensibili e procedure che languono, il genere umano sta decidendo che cosa è e che cosa intende diventare. Sta scegliendo se continuare a vivere come ha sempre fatto, fino a quando non renderà una discarica la sua stessa casa, o se intende fermarsi e cambiare strada. Questo va ben al di là del cambiamento del clima. Questo riguarda tutti noi.

Il vertice di Copenaghen ci mette di fronte alla nostra tragedia originale: siamo primati universali, capaci di abbattere prede molto più grandi di noi, conquistare nuovi territori, sfidare gli elementi. D’altro canto, il summit parte dalla premessa che l’epoca delle prodezze è conclusa. Siamo entrati nell’epoca dell’adattamento. Non possiamo più vivere senza porci dei limiti. In tutto ciò che facciamo dobbiamo essere consapevoli dell’esistenza altrui, dobbiamo essere prudenti, moderati, meticolosi. Non possiamo più vivere per il presente, come se non esistesse un domani.

Visioni inconciliabili

Quello di Copenaghen non è un semplice vertice sui gas serra: è una battaglia tra due opposte visioni del mondo. Gli arrabiati che cercano di far deragliare un possibile accordo l’hanno capito molto meglio di noi. Un nuovo movimento, visibile soprattutto in America Settentrionale e in Australia ma anche altrove, pretende di calpestare tranquillamente le vite altrui, come se si trattasse di un diritto umano. Non si farà condizionare da tasse, restrizioni all’uso delle armi, normative, regolamenti sanitari e di sicurezza e tanto meno da vincoli ambientali. Sa che i combustibili fossili hanno garantito al primate universale un progresso ben al di là dei più rosei sogni del Paleolitico. Per un breve istante, un istante meraviglioso, ci hanno consentito di vivere in una beata noncuranza.

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Il genere umano non è più diviso tra conservatori e liberali, tra reazionari e progressisti. Oggi la linea di conflitto separa chi si espande e chi si modera, coloro che credono che non dovrebbero esserci impedimenti di sorta e coloro che pensano che sarebbe giusto darsi dei limiti. Le battaglie tra verdi e negazionisti sono soltanto l’inizio. Questa guerra diventerà via via più spiacevole, a mano a mano che la gente prenderà a calci i limiti che la decenza impone.

L'illusione dello sviluppo

Anche se i delegati stanno cercando di affrontare le loro responsabilità, credo che alla fine cercheranno di svenderci. Tutti vogliono vivere un’ultima avventura. Quasi nessuno tra i partiti ufficiali può accettare le implicazioni di uno stile di vita sostenibile. Continuano tutti a ripetere che domani ci sarà un’altra frontiera, altri mezzi per eludere i nostri limiti. La crescita economica è una formula misteriosa, che consente ai nostri conflitti di restare irrisolti. Finché le economie crescono, la giustizia sociale non è necessaria – dicono – perché le vite possono migliorare senza procedere a una ridistribuzione della ricchezza. Finché le economie crescono, possiamo continuare a comprare il modo di tenerci fuori dai guai.

I negoziatori nella città di plastica non fanno ancora sul serio col cambiamento del clima. C’è anche un’altra cosa importante di cui non si parla: gli approvvigionamenti. La maggior parte degli stati nazione che si azzuffano a Copenaghen ha due politiche per i combustibili fossili: la prima è quella di ridurre al minimo la domanda, incoraggiando a restringere i consumi; la seconda è di massimizzare i rifornimenti, incoraggiando le aziende a estrarre il più possibile.

Sappiamo, dagli articoli pubblicati su Nature nell’aprile scorso, che per non innalzare le temperature medie globali di più di due gradi non potremo utilizzare più del 60 per cento delle attuali riserve di carbone, petrolio e gas. E ancor meno se – come molti paesi poveri chiedono a gran voce – vogliamo evitare che le temperature si alzino di più di 1,5 gradi. Sappiamo che il sequestro e l’immagazzinamento dell’anidride carbonica potranno eliminare solo una minima parte del biossido di carbonio prodotto da quei combustibili. Le conclusioni, inevitabilmente, sono due: i governi devono decidere quali riserve esistenti di combustibili fossili devono restare lì dove si trovano e devono introdurre una moratoria globale sulla ricerca di nuovi giacimenti. Ma nessuna di queste proposte è stata messa sul tavolo.

SONDAGGIO

L'Europa centrale non ha paura

A eccezione degli ungheresi, la questione del riscaldamento globale lascia indifferente l’Europa centrale, scrive il settimanale ceco Respekt. Secondo una recente inchiesta di Eurobarometro, “soltanto il 30 per cento dei polacchi pensa che il clima possa costituire un problema, mentre gli slovacchi hanno maggiori timori in proposito (41%). Sicuramente dipende dal fatto che non hanno Václav Klaus [il presidente ceco, che non crede al cambiamento del clima] e che vivono vicino agli ungheresi, colpiti da una siccità che minaccia le colture autunnali”. La percentuale di ungheresi che ha espresso timori in relazione al clima (52%) è superiore alla media europea, che si assesta sul 47 per cento.

Nell’Europa dell’est la maggiore preoccupazione è la crisi economica. Il 68 per cento dei lituani e il 71 per cento dei bulgari temono “una grave recessione mondiale”. I cechi hanno più paura della crisi (63%) che del clima, anche se la loro situazione è molto meno grave: “Gli ungheresi, che avrebbero buoni motivi per essere in pena, sono più ottimisti dei cechi (48 per cento), gli slovacchi (47 per cento) sono vicini alle loro posizioni, mentre i polacchi se la ridono della crisi: soltanto il 25 per cento di loro teme davvero una recessione”, scrive Respekt.

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