Lasciamo fare alla Germania

I progetti di integrazione federalista rischiano di coinvolgere nel processo decisionale i paesi più arretrati e instabili. Meglio fidarsi dei governi più capaci, soprattutto quello tedesco.

Pubblicato il 26 Aprile 2012 alle 11:07

Ora che la crisi finanziaria in Europa sembra provvisoriamente scongiurata, si comincia prudentemente a riparlare del futuro dell’Unione europea. In Germania, in particolare, il dibattito è già avviato.

Angela Merkel spera di emendare il trattato di Lisbona e portare a termine “sostanziali riforme strutturali”. Il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle si è espresso in favore di una nuova “costituzione europea” con spiccate caratteristiche soprannazionali. L’eurodeputata Sophie in ’t Veld [esponente di D66, sinistra olandese] chiede dalle pagine del Volkskrant una “forte unione politica”, la soppressione dei “veto vincolanti” e un presidente della Commissione europea eletto a suffragio diretto.

Si tratta di proposte già note, estratte dalla vecchia scatola del progetto federalista. Ma è tempo di rimettere la scatola in soffitta. La Germania ha infatti dimostrato durante la crisi finanziaria che il suo peso economico e politico in Europa può tornare a suo vantaggio. Inoltre gran parte dei principi su cui si è fondata l’integrazione europea dal dopoguerra sono ormai superati.

In primo luogo è obsoleta l’idea secondo cui l’integrazione europea serve a tenere sotto controllo la Germania. A suo tempo, dopo la Seconda guerra mondiale, era una motivazione legittima, ma resta il controllo della Germania attraverso le istituzioni europee proteggeva innanzitutto gli interessi economici della Francia. Nel contesto del mercato unico i trattati europei servivano a proteggere l’agricoltura e l’industria francese dal dinamismo delle esportazioni tedesche. Per decenni la Repubblica federale, cosciente delle sue colpe e sotto la pressione (morale) della Francia, ha fatto le veci di Zahlmeister, tesoriere dell’Europa.

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L’evolversi della crisi ha mostrato chiaramente che sono i capi di governo a dettare legge a Bruxelles. Nella gerarchia europea il Consiglio costituisce la direzione dell’Ue, di cui Herman Van Rompuy è il segretario; il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso è il suo assistente. Sarebbe dunque paradossale eleggere quest’ultimo a suffragio universale, come vorrebbero i neo-federalisti a Berlino e Strasburgo. Al contrario sarebbe più logico continuare a rafforzare il Consiglio europeo ottenendo nel frattempo maggiori garanzie per i piccoli paesi.

Quello del’“unione politica“ può sembrare un concetto allettante, ma se realizzato ingloberebbe inevitabilmente gli stati meno virtuosi, che non si distinguono in campi come la lotta alle frodi e alla corruzione, il pluralismo e la libertà di stampa. Per esempio Francia e Italia, le due maggiori economie dell’eurozona dopo la Germania, sono considerate dall’ong americana Freedom House “democrazie difettose” (flawed democracies), anziché democrazie compiute e solide. L’Italia, a causa del conflitto d’interessi tra le istituzioni e i media [controllati da Berlusconi], è definita “parzialmente libera” e si ritrova - insieme a Bulgaria e Romania, altri due stati dell’Ue - nella stessa categoria di Indonesia e Bangladesh.

Nella classifica di Freedom House i Paesi Bassi presentano un punteggio nettamente superiore alla media europea. Secondo l’ong quella olandese è la democrazia parlamentare migliore tra le 17 dell’eurozona (la valutazione è stata realizzata nel 2010 e tiene conto del sostegno del Pvv di Gert Wilders al governo). Dunque per i Paesi Bassi l’idea di condividere il potere a Bruxelles con paesi poco democratici e con difetti nei meccanismi di esercizio del potere non è particolarmente allettante.

Il risveglio del leader

Fino a quando si tratta di commercio e consumo di barrette di cioccolato non è un dramma. Ma la situazione cambierebbe nel contesto di una reale unione politica, dove le decisioni sulle imposte, il budget e le pensioni spetterebbero in definitiva a stati le cui pratiche democratiche lasciano a desiderare ma hanno un forte peso demografico-economico. Per non parlare dell’eutanasia e di altre questioni che stanno a cuore agli olandesi e che potrebbero subire il “veto” di altri paesi.

A Berlino, lentamente, stanno cominciando a capire che la Germania può e deve ricoprire il ruolo del leader in Europa. A questo proposito Ulrike Guérot, del think tank European Council on Foreign Relations, parla di “risveglio tedesco” e addirittura di “catarsi”. Eppure la Germania non osa ancora arrivare alla conclusione più logica: con una simile leadership ci vorrebbe una diversa organizzazione della cooperazione europea. Con meno elementi federalisti e più spazio per un assembramento di forze degli stati europei più qualificati in un’economia mondiale aperta.

La realizzazione politica della futura cooperazione europea non deve più essere ostaggio del passato oscuro della Germania. È il momento di rendersene conto. Serve un risveglio, a Berlino e a Strasburgo.

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