Hollande, la rivoluzione è lontana

La possibile vittoria del candidato socialista al ballottaggio presidenziale ha scatenato le reazioni allarmate della stampa e dei partner. Ma il vero pericolo è l’ortodossia del rigore sostenuta dai suoi avversari.

Pubblicato il 6 Maggio 2012 alle 07:42

Le elezioni presidenziali in Francia hanno dato prova dello stato d’animo rivoluzionario che prevale in Europa. Tuttavia sarebbe un errore giungere alla conclusione che la Quinta repubblica eleggerà un presidente rivoluzionario.

La democrazia europea ha postulato una nuova forma di organizzazione. I cittadini possono tuttora cambiare di quando in quando i propri leader, ma soltanto avendo ben presente che le elezioni non corrispondono a un reale cambiamento di direzione. Destra o sinistra, dentro o fuori l’euro, le élite che governano continuano a inginocchiarsi all’altare dell’austerity. I governi potranno anche sussultare qui o perdere un po’ di forza lì: in ogni caso nessuno oserà contestare apertamente la dottrina dell’integrità fiscale.

Questo senso di inutilità ha dato un tocco rivoluzionario al primo round delle elezioni presidenziali in Francia. Che quasi un quinto degli elettori abbia appoggiato il Front National di Marine Le Pen e che oltre un decimo abbia votato il Fronte dell’estrema sinistra di Jean-Luc Mélanchon indica chiaramente quanto sia profonda e grave la sensazione l’insoddisfazione della nazione. In un certo senso si è trattato di un sano memento – se mai qualcuno ne avesse avuto bisogno – di come populismo e xenofobia prosperino in tempi di depressione.

I francesi, per altro, non sono gli unici in questa situazione. In Ungheria Viktor Orbán guida un governo nazionalista di destra che sta calpestando la legalità nell’intento dichiarato di instaurare un’egemonia politica permanente. La destra populista è in ascesa anche in paesi più piccoli del nord Europa: basti pensare ai Veri finlandesi e al Partito della libertà di Geert Wilders. Nei Paesi Bassi come altrove l’euroscetticismo è diventato bandiera anche dell’estrema sinistra.

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Un conservatore con la “c” minuscola

Malgrado ciò, la scelta che deve affrontare la Francia in questo weekend di ballottaggio è più familiare, e la retorica della campagna stessa maschera l’esiguità davvero notevole della scelta politica.

Il leader del partito socialista François Hollande è un conservatore con la “c” minuscola che intende recuperare il modello postbellico europeo del mercato sociale. Ma anche la retorica che Nicolas Sarkozy ha sfoggiato nei comizi della campagna per il suo secondo mandato è impregnata di nostalgia: Sarkozy promette di riportare la Francia alla grandeur dell’epoca di De Gaulle. L’impressione più forte che ha lasciato il dibattito televisivo di questa settimana tra i due candidati è quella di una profonda antipatia personale, più che di un grande divario politico.

A meno di sorprese vincerà Hollande, non tanto perché ha saputo ispirare simpatia e considerazione nei francesi, quanto perché Sarkozy le ha perse entrambe. Le parole utilizzate più spesso per descrivere Hollande sono “pragmatico”, “prudente”, “scialbo”. Quando mai in passato un candidato che aspirava alla presidenza si è lanciato in campagna elettorale proclamando di essere nient’altro che “normale”?

Fuori dalla Francia, però, Hollande è visto come uno spauracchio. È ovviamente impossibile che la cancelliera tedesca Angela Merkel trovi in Hollande un’anima gemella, ma pare abbia addirittura affermato di temere che il suo rapporto con lui sarà un “incubo”. Il britannico David Cameron poche settimane ha snobbato il leader socialista in visita a Londra.

La Francia socialista alleata dei paesi del sud

L’Economist ha dichiarato in copertina che Hollande sarebbe “pericoloso” — anche se poi, in puro stile british, si è premurato di aggiungere un “piuttosto” allo sgarbato epiteto. L’aspirante presidente, ha fatto notare il settimanale, “crede veramente nella necessità di creare una società più giusta”. E che cosa potrebbe esserci di più pericoloso di questo?

Un tale allarmismo si basa su alcuni curiosi presupposti: che la lezione del recente passato insegna che i governi non dovrebbero mai intromettersi nei mercati e che l’attuale strategia economica europea ha avuto un successo travolgente nel ricostruire le finanze pubbliche e far ripartire la crescita economica.

Personalmente credevo che i seguaci più fedeli del libero mercato fossero stati messi in guardia dalla crisi globale e fossero diventati consapevoli dei pericoli che comporta il capitalismo finanziario senza restrizioni. E per quanto riguarda l’austerità che va-comunque-sempre-bene-a-tutti, perfino alcuni policymaker tedeschi ormai stanno iniziando a domandarsi se politica economica non voglia dire qualcosa di più che tagliare la spesa pubblica e aumentare le tasse.

In ogni caso, qualora sia eletto, il presidente Hollande andrà incontro a forti restrizioni. I mercati azionari freneranno in modo considerevole qualsiasi tentativo di compiere uno scatto in avanti verso la crescita. Un disincentivo ancora più importante sarà la percezione che la Francia avrà di sé. Gli stati europei meridionali d’Europa, fortemente indebitati, potranno vedere nella Francia socialista un potente alleato, ma Hollande condivide pur sempre con i suoi predecessori all’Eliseo una prospettiva di gran lunga diversa della geografia politica del continente.

Parliamo di crescita

Ciò fa sì che Parigi si arroghi la pretesa di avere la leadership in Europa e soprattutto di essere alla pari con Berlino nel plasmare il futuro del continente. Come capì benissimo François Mitterand trent’anni fa quando adottò la politica del “franco forte”, queste pretese comportano tutte un prezzo da pagare. E quando si arriva al dunque, è la Germania a dettare le regole in campo economico.

Hollande ha un paio di idee a dir poco stravaganti: tassare i ricchi al 75 per cento, per esempio, potrà tranquillizzare le coscienze della sinistra, ma non farà del bene all’economia. Tutto ciò, naturalmente, non significa che egli non potrà o non dovrà sfidare l’ortodossia dominante.

La crescita economica non è un’idea di sinistra: basta chiederlo a Mario Monti, il primo ministro tecnico italiano. Il piano di liberalizzazione economica e il piano di tagli al deficit di Monti dipendono prima di ogni altra cosa dal fatto di riuscire a trovare una via di uscita dall’attuale stagnazione.

Il concetto veramente “pericoloso” nell’Europa di oggi non è tanto quello di lanciare un dibattito sulla crescita, bensì quello di dare per scontato che le cose possono semplicemente continuare ad andare avanti così. Deve pur esistere un collegamento tra recessione e riduzione del deficit: senza di esso il continente europeo rischia sul serio la rivoluzione. Anche se in Francia non ancora.

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