Kiev, dicembre 2004: un manifesto elettorale del leader della rivoluzione arancione Viktor Juschenko. (AFP)

Le rivoluzioni sono finite

In Ucraina e in Georgia i movimenti "filo-occidentali" cercano nuovo slancio senza il sostegno dell'Ue. Oltre ai loro errori, pagano il fatto di non corrispondere alle ambizioni geopolitiche dell'Ue, osserva il politologo Olaf Osica.

Pubblicato il 11 Marzo 2010 alle 16:07
Kiev, dicembre 2004: un manifesto elettorale del leader della rivoluzione arancione Viktor Juschenko. (AFP)

Anche se non hanno realizzato tutte le speranze che erano riposte in loro, le "rivoluzioni a colori" in Georgia e in Ucraina hanno comunque avviato processi di trasformazione negli apparati statali e nella società. Per quale motivo allora l'Unione europea è così poco determinata ad attirare questi due paesi nella sua sfera di influenza? I responsabili sono numerosi. In cima alla lista ci sono le élite politiche locali. In Ucraina non hanno saputo trasformare la vittoria del 2004 in programmi di riforma.

Nel caso della Georgia invece, il successo delle riforme interne ha provocato un clima di fiducia eccessiva, che alla fine si è rivelato fatale per il paese, con la decisione nefasta di entrare in guerra con la Russia e con l'instaurazione di un regime autoritario. Questi due atteggiamenti forniscono un ottimo alibi alle élite occidentali, che valutano la Georgia e l'Ucraina non solo in base alle riforme, ma soprattutto a dei criteri geopolitici. La geopolitica è il motivo principale. La vicinanza della Russia, che considera i paesi dell'ex Unione Sovietica come parte integrante della sua sfera di influenza, dissuade l'Europa dall'avviare rapporti più stretti con la regione. La "guerra fredda" continua così a modellare la politica europea.

Un rischio per l'integrazione

Il terzo colpevole è il "Progetto", cioè un'Europa che aspira a un'unione sempre più stretta sul piano economico e politico. Il suo allargamento ai nuovi paesi deve quindi tenere conto della capacità e della volontà di questi ultimi di partecipare a un progetto così definito, e a conformarsi alle regole concepite e applicate progressivamente dai paesi fondatori. In caso contrario, i nuovi membri non farebbero che accrescere il già nutrito gruppo della periferia orientale, aumentandone la capacità di ritardare il progresso del centro. In questa prospettiva, Georgia e Ucraina sembrano una potenziale fonte di problemi. Non bisogna dimenticare che problemi simili hanno interessato i paesi dell'Europa centrale alla loro uscita dalle strutture militari del Patto di Varsavia e del Consiglio di assistenza economica reciproca (Comecon). Le nostre élite non erano sovietizzate come in Ucraina, e c'era la forte influenza di Solidarnosc.

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La storia era dalla nostra parte. Questo ha permesso ai polacchi, ai cechi e agli ungheresi di ottenere maggiore attenzione. Ma eravamo comunque visti un po' come è visto oggi l'Est: una massa di arretrati poveracci, che cercava di sabotare in ogni modo quella sicurezza e quella prosperità che l'occidente aveva impiegato decenni a costruire. In altre parole, eravamo dei barbari incapaci di capire la ragione superiore dell'integrazione europea e il desiderio di fondersi nel suo processo. In compenso, all'uscita del blocco comunista la nostra situazione geopolitica era peggiore. La Russia era all'epoca un paese molto più imprevedibile, una superpotenza in declino, capace di un colpo di coda. Siamo riusciti comunque a superare questi problemi. Perché allora la situazione dovrebbe essere diversa per la Georgia e l'Ucraina? La risposta deve essere cercata nel tempo che è passato dal 1989, che ha cambiato molte cose.

I tempi sono cambiati

Le "rivoluzioni a colori" non sono un'estensione dell'autunno dei popoli del 1989, anche se la loro apparenza e la loro retorica possono ricordare la nostra esperienza. Queste rivoluzioni, nate in altre circostanze interne ed esterne, hanno provocato dei cambiamenti non a livello geopolitico ma esclusivamente subregionale. Non hanno quindi cambiato il contesto politico in Europa, lo hanno semplicemente adattato alle nuove circostanze. L'allargamento dell'Unione, definito un progetto neoimperiale dal docente di Oxford Jan Zielonka perché fondato su obiettivi di potere e di accesso ai nuovi paesi, e quindi privo di significato per quanto riguarda i paesi vicini a est dell'Ue. A differenza degli anni novanta, oggi l'Europa abbandona lentamente la visione di sé stessa come grande potenza.

Di conseguenza è difficile immaginare che l'Ue continui il processo di espansione. Per gli aspiranti membri questo atteggiamento si traduce nella ricerca di una vita senza l'Unione europea o senza la Nato. I principali orientamenti della politica ucraina si sono sviluppati senza contare sul fattore europeo. Lo stato ucraino si è consolidato al di fuori degli obiettivi di integrazione europea e di adesione alla Nato. Nel caso della Georgia, la situazione sembra leggermente diversa, ma la guerra persa contro la Russia, insieme all'impotenza dell'Europa e degli Stati Uniti in quell'occasione, potrà avere un'influenza ben più importante sull'identità politica contemporanea di Tbilisi rispetto alla prospettiva di una piena integrazione con l'Occidente. (adr)

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