Berlino torna alla realpolitik

Dopo un’estate bollente, si profila un autunno più tranquillo per la zona euro: i paesi del nord Europa, a cominciare dalla Germania, stanno diventando più pragmatici. Hanno capito che la fine dell’euro provocherebbe un sisma dentro e fuori dall’Ue, ma ciò non significa che allenteranno la morsa, perché la soluzione della crisi è ancora lontana.

Pubblicato il 23 Agosto 2012 alle 14:59

La quiete dopo la tempesta dovrà attendere. Ancora non si sa quanto. Però dopo una torrida estate, che alla prova dei fatti si è rivelata meno massacrante del temuto, si intravede un autunno sempre caldo per l'euro ma più governabile e governato che in passato. Un biennio abbondante di "bollenti spiriti" sembra ora lasciare il passo a una gestione più pacata, razionale ed equilibrata della crisi.

Estremismi, dogmatismi, populismi non sono certo morti. E nemmeno la recessione economica e la disoccupazione che contribuiscono ampiamente ad alimentarli. In Germania la Bundesbank continua ad alzare la voce con tutti, Bce compresa, insieme a una parte del Bundestag, entrambi arroccati sulla più pura ortodossia.

Però il dibattito tedesco si sta facendo più articolato. Soprattutto Angela Merkel pare essersi convinta che, per lei e la sua riconferma alla Cancelleria, sarà meglio presentarsi alle elezioni del settembre 2013 con in tasca l'euro piuttosto che senza. Il collasso della moneta unica provocherebbe infatti uno shock dai costi enormi e, soprattutto, dalle conseguenze imprevedibili in Europa e fuori.

Non c'è solo il cancelliere tedesco a convertirsi al pragmatismo. Persino il premier finlandese Jyrki Katainen, quello che ha preteso e ottenuto dalla Grecia garanzie bilaterali supplementari prima di sbloccare la sua quota di aiuti, ora parla di «una maggiore integrazione politica e non il contrario» per rafforzare l'euro. Il tutto mentre negli altrettanto rigoristi Paesi Bassi, il leader socialista Emile Roemer, probabile vincitore delle elezioni del 12 settembre, tuona contro l'austerità e promette la riduzione del deficit sotto il 3% non prima del 2015, cioè due anni dopo la scadenza del 2013 blindata negli impegni europei assunti dal Paese.

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Boccata d'ossigeno in vista per i Paesi del club vessati da rigore e tagli di spesa, aggrediti dalla recessione?

No. Né Berlino e i suoi alleati del Nord né la Bce di Mario Draghi intendono allentare la morsa, ritenuta indispensabile per recuperare stabilità, coesione e credibilità dell'area. Però tutti ora sembrano pronti a fare i conti con la realtà e i costi iniqui della crisi che gravano su alcuni paesi, come l'Italia, a beneficio evidente di altri, come Germania, Paesi Bassi e Francia.

Appurato, come sembra, che la cacciata di Atene è stata archiviata in nome della difesa dell'integrità dell'euro, prima o poi una soluzione sarà trovata. Come per la Spagna. Mentre le tensioni sull'Italia sembrano allentarsi.

Nulla però induce ancora ad abbassare la guardia. La malattia dell'euro è ancora tutta da guarire. Peggio. Per una fortuita e fortunata serie di circostanze, soprattutto politiche, la Francia non è finita nel lazzaretto mediterraneo ma soffre degli stessi sintomi. Che dovrà curare al più presto e in modo credibile per evitare che i mercati prima o poi non decidano di andare a vedere il bluff.

Per ora Hollande si è dimostrato un presidente evanescente. La debolezza sua e del suo Paese potrebbero farne un interlocutore impossibile nella partita per la cessione della sovranità nazionale sul bilancio, dell'Unione fiscale per dirla in gergo, cui la Germania condiziona la propria solidarietà finanziaria con l'eurozona. Cioè la sopravvivenza dell'euro.

Gli attuali spiragli di ragionevolezza che circolano in Europa promettono bene ma purtroppo non bastano a dissipare le tante incognite, a partire da quel tallone d'Achille francese, che continuano a tormentare il destino della moneta unica.

Visto da Atene

La Germania aumenta la pressione

Le dichiarazioni di Angela Merkel - convinta che il suo incontro con Antonis Samaras del 24 agosto non porterà ad alcuna decisione prima del rapporto della troika sull’avanzamento delle riforme in Grecia, previsto per fine settembre - unite a quelle del ministro delle finanze olandese Jan Kees de Jager, contrario alla proroga chiesta dal primo ministro greco per mettere in atto le riforme, hanno avuto l’effetto di una doccia fredda. “Ogni minima speranza di ottenere un risultato dopo la visita di Samaras a Berlino è scomparsa”, scrive To Vima. Secondo il quotidiano ateniese - che definisce la maratona diplomatica di Samaras “la battaglia dei tre giorni” -,

La posizione di Berlino e dei suoi sostenitori è chiara: i tedeschi hanno deciso di aumentare la pressione, per due motivi. Innanzitutto perché sono convinti che più la pressione sarà forte e più il governo greco sarà costretto a mantenere gli impegni, e viceversa il minimo gesto di distensione potrebbe rallentarne gli sforzi. La seconda motivazione è più profonda, ed è legata alla credibilità sempre più dubbia della Grecia, che negli ultimi anni ha promesso molto e non ha fatto quasi niente. I tedeschi sono semplicemente convinti che la Grecia non abbia mantenuto gli impegni durante gli ultimi quattro governi.

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