Che abbiamo fatto di male?

Nonostante l'Europa si consideri una potenza benevola, nel resto del mondo è considerata sempre più un'eterogenea associazione di ex colonialisti, chiusa in sé stessa e sottomessa agli Stati Uniti. È ora di cambiare immagine.

Pubblicato il 3 Giugno 2010 alle 15:55

Dopo l’11 settembre la domanda ricorrente era: "Perché ci odiano?". Gli Stati Uniti si erano sempre considerati una potenza "buona" ed erano rimasti perplessi osservando le folle a Gaza o in Libano che si abbandonavano a grandi festeggiamenti per la distruzione delle torri gemelle.

Oggi anche gli europei si chiedono per quale motivo godono di così scarso rispetto a livello mondiale. Se un tempo un documento cinese parlava dell’Europa come di una superpotenza mondiale in ascesa, nelle ultime settimane un coro di commentatori internazionali ha iniziato a deridere le pretese di leadership mondiale del vecchio continente. Kishore Mahbubani, rettore della facoltà di affari internazionali della Lee Kwan Yew School di Singapore, sostiene che l’Europa non capisce ‘quanto stia diventando irrilevante per il resto del mondo’, mentre Richard Haass, presidente dello statunitense Council on foreign relations, ha detto ufficialmente “arrivederci all’Europa come potenza di alto livello”. Non si tratta di voci isolate o di una frangia di stravaganti: Mahbubani è infatti il rettore di uno degli istituti politici più rinomati in Asia e Haass è un diplomatico affermato e al di sopra delle parti.

Perché dunque i paesi europei sono esposti a tento sarcasmo? Dopo tutto, ancor più degli americani gli europei hanno ragione di credere che la loro influenza sia fondamentalmente positiva. L’Europa è una forza pacifica, un bizzarro assortimento di stati-nazione il cui impegno in politica estera pare limitato a sborsare aiuti per lo sviluppo e a ospitare lunghe conferenze. Avremo anche i nostri problemi interni, ma non al punto da meritarci il disprezzo delle élite di Nuova Delhi, Pechino o Il Cairo.

Allora perché l’esaltazione iniziale si è trasformata così repentinamente in ostilità? Non credo che si possa liquidare tutto come mera invidia: gli outsider non sono semplicemente invidiosi degli stipendi, delle vacanze, delle pensioni europee. Né credo che si preoccupino per i tortuosi processi decisionali interni all’Europa, malgrado la notevole frequenza con la quale se ne parla su tutti i giornali europei dopo il trattato di Lisbona.

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Bisogna considerare una scomoda verità: i paesi del mondo si sono a lungo offesi per le intromissioni moralizzanti dell’occidente, e adesso hanno trovato il coraggio di trattare dall’alto in basso un’Europa la cui influenza globale non è più così scontata. Come esempio del nostro scarso soft power”, quando chiedo in giro per il mondo che significato abbia il termine “Europa”, resto sempre sorpreso che in pochi rispondano democrazia sociale, diritti umani o anche solo “bella vita”. Nella stragrande maggioranza dei casi, la risposta più frequente è legata ai ricordi del regime coloniale europeo e alla sensazione di superiorità da parte nostra. Mentre le date storiche di riferimento per gli europei sono il 1918, il 1945, il 1989, per il resto del mondo restano il 1842, il 1857 e il 1884. Ci sono state molteplici occasioni per tirare una riga sul passato, ma sono ancora molti a vedere nell’Europa una fortezza chiusa che offre scarse opportunità di integrazione o innovazione.

Chiudere col passato

Riuscirà mai l’Europa a prendere le distanze dal proprio passato? La risposta è sì, ma se l’Europa deve diventare quella potenza multilaterale che desideriamo che sia, è necessario procedere a una operazione di “rebranding”. Il primo passo dovrebbe permetterci di proiettare un’immagine di un’Europa più inclusiva, di un continente più aperto a gente nuova e nuove idee: negli Stati Uniti l’elezione alla presidenza del figlio di un keniano avrà anche fatto poco per cancellare le ineguaglianze reali, ma in un sol colpo ha consentito al paese di reinventarsi e rinnovarsi. L’Europa può contare su migranti di successo, ma è un triste dato di fatto che nel politburo di Stalin vi fosse maggiore diversità etnica di quanta non ve ne sia nell’odierna Commissione europea.

In secondo luogo dobbiamo cercare di raccontare una storia più coerente al mondo esterno. La nostra è una storia cristiana di caduta e redenzione, la storia di un continente devastato da secoli di guerre e conquiste che, a partire dalle macerie del 1945, ha deciso di fare pace con sé stesso e di affrancarsi dalle proprie ambizioni coloniali. Se solo decidessimo di rendere credibile questa versione, l’Unione Europea potrebbe diventare il leader multilaterale che aspira a essere. Invece, ogni volta che ci troviamo a trattare col mondo estero, questa maschera continua a cadere, scoprendo le vecchie ostilità e gli intrighi nazionali. Quando è il momento di riformare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o di decidere il diritto di voto delle istituzioni di Bretton Woods, nascondiamo la testa sotto la sabbia. Non penso che i tedeschi si rendano conto di quanto appaiano ridicoli chiedendo un’altra poltrona per l’Europa al Consiglio di sicurezza, quando l’India non ne ha ancora una. Lo stesso vale per le politiche comuni europee per gli affari esteri e la sicurezza, ma nelle missioni africane – unico nostro impegno di spessore al di fuori dell’ambito europeo – è difficile fraintendere gli intrighi post-coloniali degli interessi francesi, belgi e britannici.

Infine, dovremmo farla finita con l’idea che il rispetto si guadagni distribuendo con parsimonia somme sempre più ingenti di aiuti umanitari, specialmente quando simili cifre sono collegate a una retorica moralizzante senza fine. Ciò che i poveri del mondo si aspettano da noi non sono i nostri soldi, bensì il nostro rispetto. Continuiamo a sborsare aiuti umanitari, ma non ci preoccupiamo che i soldi siano spesi proficuamente, o che il nostro immischiarci nella politica locale abbiano qualche effetto, e ciò dimostra un disprezzo ancora maggiore che non dare niente. Dobbiamo ancora imparare la lezione del successo diplomatico della Cina in Africa, che è riassumibile in questi termini: i paesi in via di sviluppo sono più interessati al raggiungimento dei risultati che al come li si raggiunge.

L’Europa deve smettere di nascondersi dietro gli Stati Uniti. Deve iniziare ad assumersi le responsabilità delle proprie decisioni. Ciò non potrà accadere, tuttavia, fintantoché l’Europa sarà governata da una gerontocrazia di centrodestra che preferisce continuare ad aggrapparsi al passato atlantico che a mettere a posto il nostro presente multipolare. I nostri leader trascorrono intere giornate cercando di ottenere il gettone di presenza alla Nato, a chiedersi se il presidente Obama parteciperà o meno al summit Ue-Usa, a cercare a tentoni i loro poteri de jure nelle istituzioni di Bretton Woods, mentre dovrebbero rendersi conto una volta per tutte che le regole del gioco stanno cambiando e che i vecchi sistemi stanno perdendo influenza rapidamente. E questo gli americani sembrano averlo capito meglio di noi. (ab)

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