Oltre la democrazia rappresentativa

La crisi dell’Unione europea ha prima di tutto radici politiche: il modello adottato nel secondo dopoguerra è stato superato dai profondi cambiamenti socioculturali intercorsi. Serve un nuovo rapporto tra cittadini e potere.

Pubblicato il 14 Settembre 2012 alle 14:30

Per rispondere alle domande “Quale Europa ci serve?” e “Quale Europa possiamo permetterci?” dobbiamo adottare l’ottica degli europei, quelli di oggi e quelli di domani. Dopo tutto, infatti, stiamo parlando di una compagine reale, di qualcosa che esiste, composto di persone che ne sono parte integrante, non soltanto intellettuali, uomini politici, alti funzionari, ma anche gente del tutto comune. Quelli che votano e quelli che se ne astengono, quelli che si interessano agli affari pubblici e quelli che non lo fanno, quelli che eleggono presidenti e parlamentari saggi o imbecilli, esercitando fino in fondo o per niente i loro diritti civili, politici ed economici.

Ho l’impressione che si trascuri eccessivamente il problema che i cittadini, gli europei, rappresentano per l’Europa anche se questo problema non è esclusivo del continente europeo. I cittadini sono cambiati moltissimo e non sono più gli stessi che circa mezzo secolo fa erano governati da grandi leader europei del calibro di De Gasperi, Schuman, Adenauer o de Gaulle. Questo cambiamento non influisce soltanto sulla democrazia presente e futura negli stati-nazione, ma anche sulla forma odierna e futura della stessa Unione europea.

È impossibile pensare all’Unione senza ricordarne alcuni aspetti generali. L’Unione nacque dal trauma della seconda guerra mondiale e fu creata dalle società che sopravvissero a quest’ultima. Di conseguenza, i cittadini conoscevano troppo bene i rischi di una cattiva pratica di governo per disinteressarsi degli affari pubblici: leggevano i giornali, partecipavano alle elezioni, si impegnavano nei partiti e nelle organizzazioni sindacali. In occidente i primi trent’anni del dopoguerra sono stati una vera epoca d’oro dal punto di vista della cittadinanza attiva.

Nel corso dei decenni seguenti la sociologia e le pratiche democratiche sono cambiate tantissimo. Poco alla volta il cittadino è stato rimpiazzato dal consumatore. Nella sfera pubblica il dibattito aperto e l’informazione sono stati soppiantati dall’intrattenimento. I partiti politici tradizionali, disposti a sinistra o a destra a seconda di rigorosi criteri ideologici e di classe, sono capitolati di fronte a un’ideologia senza nome che ha sottomesso tutti gli ambiti della vita all’economia. Poi hanno imboccato a braccetto la strada della sottomissione delle idee all’economia.

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Se ciò sia stato un bene o un male ce lo dirà soltanto il futuro. Già adesso, però, prendiamo atto di un cambiamento profondo che interessa la cultura delle società occidentali, la struttura sociale, il livello intellettuale, le relazioni umane, il sistema dei valori. Ed è proprio a questo cambiamento che i politologi e i sociologi da svariati decenni imputano l’origine stessa della crisi della democrazia nelle sue forme tradizionali di rappresentanza.

La democrazia rappresentativa, in declino negli stati-nazione (male che Jürgen Habermas combatteva con il suo concetto di democrazia deliberativa), sarà capace di porre rimedio alla crisi dell’Unione europea? Io credo di no. In effetti, non capisco in che modo il modello rappresentativo – che si basa sull’idea di un senso di responsabilità collettiva – possa riuscire a salvare l’Unione nel momento stesso in cui è in via di sparizione. Come può salvare le istituzioni sovranazionali un modello che sul piano nazionale si va esaurendo? Conoscendo non soltanto il pensiero di Habermas, ma anche quello di John Keane, io cercherei soluzioni più innovative, più appropriate alla nostra epoca, per esempio forme istituzionalizzate e paneuropee di deliberazione e di partecipazione per tutti coloro che lo desiderano.

Premesso ciò, è indispensabile sapere se queste innovazioni, che con difficoltà si stanno facendo strada sul piano nazionale o locale, abbiano una minima chance di sfondare e funzionare a livello europeo. Neanche di questo sono sicuro. Ciò significa che dobbiamo scegliere tra una soluzione indubbiamente inefficace e un’altra plausibilmente irrealizzabile.

Il cambiamento è necessario e indilazionabile. L’incapacità decisionale dell’Ue ci porta dritti dritti al disastro. Rafforzare i meccanismi tradizionali della democrazia nell’Unione potrà forse sbloccare i processi decisionali a breve termine, ma sul lungo periodo sembra controproducente. Per esempio, è evidente che le elezioni presidenziali dirette porterebbero al potere una personalità più forte di Herman Van Rompuy. Ma saremmo davvero avvantaggiati, per esempio, se grazie l’appoggio di Mediaset e News Corporation questa nuova personalità fosse Silvio Berlusconi?

Sempre più lontani

Un altro fenomeno che caratterizza la situazione attuale è l’erosione della solidarietà sociale. Nella maggior parte dei paesi si osservano resistenze sempre più forti ad accettare i trasferimenti di capitale. I ricchi oggi sono sempre meno propensi a condividere la loro ricchezza con i più poveri, pur facendo riferimento a una forte ideologia per giustificare la loro opposizione. Naturalmente, ciò vale sia per i trasferimenti di capitale tra i vari ceti sociali sia per quelli tra generazioni e regioni diverse.

Nondimeno, senza un rafforzamento della solidarietà non si potrà né superare efficacemente la crisi né mantenere l’Unione europea nella sua forma attuale. E non soltanto perché si sta allargando a dismisura il divario tra i paesi che hanno seri problemi e quelli che sono in relativa buona salute, ma anche perché l’Europa intera è oggetto di un problema comune: la globalizzazione e diversi processi di cambiamento dei fenomeni sociali comporteranno in un prossimo futuro un abbassamento significativo del tenore di vita di noi tutti (c’è chi parla di un’involuzione del 20 per cento). In tale situazione, naturalmente, sarebbe ancora più difficile sperare in slanci di solidarietà.

Questi due fattori, l’erosione della cittadinanza e della solidarietà, mi inducono a dire che né la crisi dell’Unione né i rimedi proposti hanno un carattere istituzionale. La forma delle istituzioni europee, così come la loro impotenza, riflette l’attuale situazione socioculturale. Quanto all’aggravarsi della crisi, essa è espressione dell’erosione dei fondamenti sociali e culturali dell’Unione.

Non si tratta di una condanna a morte. Io non credo che l’Unione morirà, perché senza di essa non vedo alcuna vita plausibile per le generazioni di oggi. Il crollo dell’euro non lascerebbe dietro di sé altro che perdenti (probabilmente a rimetterci più di tutti sarebbero i tedeschi) e il crollo dell’Unione europea sarebbe una vera catastrofe, equiparabile a una grande guerra. Per fortuna in Europa si è abbastanza consapevoli tutti di ciò, per lo meno tra le élite politiche.

Le piccole astuzie tecniche, istituzionali, giuridiche e costituzionali, in ogni caso, a lungo termine non porteranno a niente se non riusciremo a influire sulla cultura e le istituzioni. La crisi economica (finanziaria e del debito) ha radici politiche. È una conseguenza della crisi della democrazia rappresentativa.

La crisi della democrazia rappresentativa è di matrice culturale, è il prodotto dell’erosione della cittadinanza attiva e della solidarietà. A prescindere da quali possano essere le difficoltà di ordine intellettuale e politico, i rimedi efficaci dovranno tener conto della natura socioculturale delle attuali tensioni, senza prendere di mira esclusivamente la gestione a breve termine di questa strana creatura che è oggi l’Unione europea.

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