Presseurop via Sami Sarkis/Katarina Premfors/Getty

Il burqa è la nostra croce

Dopo che anche la Siria ha proibito il burqa in alcuni luoghi pubblici, l'Europa deve ripensare i termini del dibattito sul velo. Se questo è uno strumento di oppressione, perché non troviamo sconveniente l'ostentazione della tortura rappresentata dal crocifisso, si chiede una filosofa tedesca.

Pubblicato il 21 Luglio 2010 alle 14:32
Presseurop via Sami Sarkis/Katarina Premfors/Getty

Se il Cristo del crocefisso indossasse il burqa potrebbe essere appeso nelle classi e negli uffici istituzionali? Quest'anno il dibattito sul velo integrale si è acceso in diversi paesi. Iniziato col divieto francese e belga di indossare il burqa e il niqab nei luoghi pubblici, è proseguito poi con misure analoghe adottate da Spagna e Gran Bretagna. La notizia che ora la Siria ha vietato il velo nelle università rientra in questo quadro, ma con le dovute distinzioni: gli argomenti che valgono nel mondo arabo sono infatti diversi da quelli che alimentano il dibattito europeo.

In Europa la questione del divieto del burqa tira in ballo inevitabilmente i rapporti tra la cultura cristiana e quella islamica, che non condividono lo stesso metro di misura. In nessun caso le iniziative legali contro il velo integrale suscitano grande entusiasmo, ma approvazione sì. In fin dei conti, la tanto dibattuta “prigione mobile”, che non trova giustificazione nemmeno nell'applicazione rigorosa del Corano, non è tanto un'espressione di devozione religiosa, quanto uno strumento di violenza patriarcale. Sotto al velo le donne sono ridotte alla condizione di insetti: così una giornalista ha descritto l'esperienza del burqa. Gli occidentali vedono nel velo integrale una specie di minacciosa metamorfosi kafkiana.

Ma in fondo anche l'immagine del crocifisso non è poi così innocua, se proprio si vuole fare un paragone. Perché una cultura dovrebbe eleggere uno strumento di tortura a suo simbolo fondante? Da un punto di vista esterno, l'esibizionismo feticista del dolore della tradizione cristiano-occidentale può sembrare altrettanto disumano che l'assurda imposizione del velo di alcuni stati islamici. Se non fosse per una questione di abitudine, anche i crocifissi che a ogni angolo della strada esibiscono il corpo sfigurato dal dolore e segnato dalla ferite potrebbero essere considerati un turbamento della quiete pubblica.

La croce, con o senza Cristo, è un simbolo sottile, che rappresenta la morte e al tempo stesso il suo superamento. Lo strumento di tortura diventa un segno di speranza perché il Cristo in croce è poi risorto. Ma il punto è discutibile: le immagini possono davvero significare il contrario di quello che esibiscono?

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È normale che la cultura occidentale sia più tollerante con i propri segni che con quelli dei vicini arabi. Deve essere però cosciente che i propri simboli non sono meno violenti o grotteschi. L'occidente non può neanche permettersi di indignarsi troppo per la misoginia araba: la sua chiesa principale nega alle donne l'accesso alle cariche religiose – senza contare che l'abito di alcune suore non è troppo diverso dal burqa.

Cristo nudo contro donna velata

Nella battaglia dei simboli – il corpo nudo di Cristo vs. la donna velata – la cultura visuale cristiana si scontra con il divieto delle immagini islamico. Il velo è da noi così inquietante proprio perché la cultura occidentale è basata sull'esibizione, e associa la libertà al disvelamento, che sia la confessione dei peccati, il denudarsi del corpo o la rivelazione dell'immagine di Dio. L'Islam invece, come l'ebraismo, non si esprime attraverso le immagini, ma nel rispetto delle leggi.

Le polemiche di oggi, che hanno portato al bando del burqa dai luoghi pubblici ma non della croce, ripropongono una vecchia battaglia culturale che investe fede, legge e il comandamento “non adorerai le immagini” – nei fatti mai rispettato dalla cultura cristiana. La proibizione del burqa in Belgio e in Francia è una specie di divieto al divieto delle immagini. Perché? Cos'è che ci spaventa tanto?

In Europa il dibattito sul velo dovrebbe servire proprio a ripensare i pregiudizi e le aberrazioni della nostra cultura. Non per questo bisogna minimizzare il velo integrale, che rimane uno strumento di sottomissione. Ma bisogna necessariamente proibirlo attraverso la legge?

Una sfera pubblica completamente laicizzata ottiene maggiori spazi di libertà, ma allo stesso tempo è soggetta a un impoverimento e a un dominio del secolare. È forse più saggio prendere una posizione equilibrata, come fa ad esempio la costituzione tedesca, che lega il principio fondamentale della neutralità dello stato alla tutela della libertà di confessione. Non ottiene così una separazione del tutto trasparente tra stato e chiesa, ma rispetta la complessità della questione religiosa e tollera, insieme alla croce, anche velo e burqa. Il principio della “neutralità attraverso la pluralità” si basa su una cittadinanza illuminata e capace di pratiche di resistenza. Più di questo dall'Europa non ci si può aspettare. (traduzione di Nicola Vincenzoni)

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