"Pensavano che si sarebbero potuti sedere DENTRO"

Ritroviamo lo spirito del 2002

Dieci anni fa Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca ottennero il via libera all’ingresso nell’Ue. Dopo aver fatto fronte comune per quell’obiettivo, però, le loro strade si divisero. Ora è il momento di ricompattare la regione.

Pubblicato il 13 Dicembre 2012 alle 12:26
"Pensavano che si sarebbero potuti sedere DENTRO"

Si avvicina il decimo anniversario della conclusione dei negoziati di adesione della Polonia all’Ue, svoltisi a Copenaghen il 13 dicembre 2002. La Polonia ottenne il via libera per entrare a far parte dell’Ue insieme ad altri nove paesi dell’Europa centrale e meridionale. Quella fu anche l’ultima volta in cui la regione formò un fronte veramente unito, e combatté per ottenere le migliori condizioni possibili per l’adesione. Da allora le nostre strade si sono divise, e ogni paese contratta direttamente con Bruxelles cercando di consolidare i suoi rapporti con i paesi chiave dell’Ue.

In realtà le strade politiche ed economiche divergevano anche prima. Il panorama politico nei dieci paesi che sono entrati nell’Ue nel 2004 difficilmente si assomiglia, a esclusione forse di una certa dose di populismo. Anche le opinioni sull’integrazione europea differiscono. La Slovacchia è nella zona euro, la Repubblica Ceca resta scettica, l’Ungheria è ribelle e la Polonia – benché in genere favorevole all’euro – ritiene che unirsi in tempo di crisi non abbia molto senso.

D’altra parte i dieci paesi ormai dipendono dall’Ue in tutto e per tutto: si tratta di un punto cruciale per la nostra posizione geopolitica e di una fonte indispensabile di fondi per la modernizzazione: i finanziamenti Ue sono presenti nel 99 per cento dei progetti pubblici ungheresi, e nel 50 per cento di quelli polacchi. L’Ue inoltre crea un ambiente protetto per gli investimenti.

Nella politica polacca la regione è sempre stata percepita come un’alternativa, non un obiettivo in sé. O è stata ignorata, perché ci sono cose più importanti come il triangolo di Weimar o gli accordi bilaterali con i paesi più importanti; in altri casi, è stata usata come contrappeso per quella che era ritenuta essere una dipendenza eccessiva dalla Germania. Oggi l’Europa centrale è diventata un mezzo per evitare l’emarginazione nell’Ue. I movimenti tellurici in corso in Europa possono cancellare ciò di cui andiamo così fieri, ovvero il fatto stesso di trovarci al centro d’Europa.

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Ipotizziamo che restando insieme agli altri nella regione dovremmo essere in grado di impedire che nasca un’Europa a due velocità. Così facendo, chiudiamo gli occhi nei confronti di quello che dovrebbe preoccuparci su come si attua la democrazia. Dobbiamo essere consapevoli degli effetti collaterali. Romania e Ungheria stanno collaudando una nuova cultura politica nella regione, spingendo sempre più in là la sottile linea rossa che segna il limite della democrazia. Se non faremo attenzione, ben presto potremmo ritrovarci anche noi nei guai.

Ciò che ci unisce più di qualsiasi altra cosa sono elementi di un passato comune, la sensazione non tanto di un’identità condivisa, quanto di un destino comune e di interessi comuni nell’Ue. Quest’ultimo fattore aveva rivestito un ruolo determinante nel 2003 nei negoziati per l’adesione e anche in seguito, durante i precedenti colloqui sui budget. Adesso il suo significato si è stemperato, perché le differenze sono aumentate e così pure la sensazione che sia possibile ottenere di più tramite relazioni bilaterali (per esempio tra Polonia e Germania). La reciproca fiducia è svanita e la Polonia non è riuscita a convincere i suoi partner regionali a porre il veto alla politica sul cambiamento del clima.

Del resto non abbiamo fatto quanto avremmo dovuto. L’International Visegrad Fund è stato istituito nel 2000, ma ha rappresentato un’eccezione alla regola degli scarsi investimenti. Ora è il momento di colmare il divario. La Polonia occupa al momento la presidenza del gruppo di Visegrad e ha messo sul tavolo un’agenda di ben 53 pagine. Due argomenti sono scontati: “collegare” i paesi della regione con reti di trasporto e infrastrutture energetiche, e definire gli interessi comuni nell’Ue, dal mercato unico alle questioni attinenti alla sicurezza.

Abbiamo un successo in comune: il pil complessivo dei paesi del gruppo di Visegrad ammonta a mille miliardi di euro, ovvero il quadruplo rispetto alla metà degli anni ‘90. Ciò significa che l’Europa centrale è qualcosa di più di una “condizione mentale”, ma è ancora molto lontana dal diventare un’entità politica autorevole e di peso.

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