Gli indipendentisti non sono una minaccia

L'avanzata dei movimenti indipendentisti in diversi paesi europei preoccupa Bruxelles, che non sa come affrontarli. Più che gesti eclatanti servono inclusione e gestione oculata dei fondi.

Pubblicato il 9 Gennaio 2013 alle 16:08

Malgrado si affermi il contrario, l’Ue è un’unione di stati nazione e tale rimarrà finché non vi sarà una revisione radicale dell’esperienza comunitaria. Cosa che, almeno per il momento, non è prevista. Non c’è niente che dimostri meglio questa affermazione del fatto che anche dopo il suo upgrade con il trattato di Lisbona, il Parlamento europeo – l’unica istituzione direttamente eletta dai cittadini europei – è anche la più debole di tutte.

Quando la crisi finanziaria e del debito si è trasformata in un rischio per l’esistenza stessa dell’Ue, il processo decisionale si è immediatamente spostato dalle istituzioni comunitarie alle rappresentanze nazionali. Ma quando l’integrità dei suoi stati nazione è a rischio, l’Ue non può limitarsi a prendere le distanze da ciò che accade nelle Fiandre, in Catalogna o in Scozia, come vorrebbero che facesse alcuni dei paesi che ne fanno parte. La recente ripresa dei movimenti separatisti (3107021), all’indomani della crisi, porrà sfide multiple a Bruxelles.

Prima di tutto, le regioni europee che aspirano all’indipendenza hanno già iniziato a porre domande complesse, per il momento implicite, ma che ben presto non potranno che essere formulate esplicitamente: la Scozia dovrà ripresentare domanda di ingresso nell’Ue se nel referendum del 2014 la sua popolazione si esprimerà a favore dell’indipendenza? I catalani saranno privati della loro attuale cittadinanza europea se sceglieranno la secessione dalla Spagna? Come reagirà l’Ue se uno dei suoi membri dovesse chiedere aiuto perché deve affrontare un “pericolo per la sicurezza nazionale”, sotto forma di movimento indipendentista?

È opinione giuridica condivisa che se un nuovo stato dovesse nascere in Europa, prima di esservi accolto esso dovrebbe affrontare l’intero processo di adesione e assicurarsi l’approvazione unanime di tutti i membri attuali dell’Unione. Secondo il trattato di Lisbona, la cittadinanza europea è complementare a quella nazionale di ogni stato membro.

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Anche se l’Ue riuscisse a gestire politicamente e legalmente un isolato incidente separatista (per esempio la Scozia), l’Unione nel suo complesso sarebbe completamente destabilizzata da un effetto valanga di richieste analoghe provenienti da Paesi baschi, Catalogna, Sud Tirolo, Fiandre, Alsazia e Corsica, come pure dai polacchi in Lituania, dei frisoni nei Paesi Bassi e dei musulmani nella Grecia nord-orientale.

Un autentico timore dei movimenti separatisti influenza l’andamento della politica dell’Ue. Per esempio, cinque dei ventisette paesi che fanno parte dell’Ue – Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna – si rifiutano di riconoscere ufficialmente il Kosovo, nel timore che ciò incoraggerebbe i loro movimenti indipendentisti interni.

La situazione è particolarmente complessa a Cipro, l’unico stato membro dell’Ue che secondo le Nazioni Unite si trova in parte sotto occupazione straniera (turca). Se l’Ue approvasse la secessione di un qualsiasi territorio europeo le autorità cipriote lo considererebbero un segnale di via libera per procedere a una partizione legale dell’isola. Anche nei casi meno complicati, come quello del Regno Unito, l’eventuale approvazione da parte dell’Ue dell’indipendenza scozzese diverrebbe motivo di più forti tensioni nelle relazioni tra Londra e Bruxelles.

La voce delle regioni

Ma allora come dovrebbe rispondere l’Ue? Prima di tutto mantenendo la calma. I movimenti separatisti non sono irreversibili. Per esempio, dai sondaggi risulta che in Scozia una netta maggioranza è decisa a votare per l’appartenenza al Regno Unito. In Spagna i sondaggi dicono che i catalani vogliono un referendum, ma sono incerti se votare pro o contro l’indipendenza. I nazionalisti nelle Fiandre paiono disposti ad accettare una confederazione più che arrivare a una rottura definitiva, e il solo rebus di decidere chi debba in tal caso tenere Bruxelles è abbastanza difficile da far sì che il Belgio continui a essere unito.

L’Ue dovrebbe adottare una posizione chiara nei confronti dello status legale delle regioni separatiste: i popoli che aspirano all’indipendenza devono avere il diritto di prendere decisioni informate. In Scozia e in Catalogna il comune sentire dimostra che la probabilità di essere espulsi dall’Ue costituisce un forte deterrente nei confronti dell’indipendenza.

Nella maggior parte dei movimenti secessionisti, la tesi predominante è che il popolo è stanco di “arrendersi” al governo centrale o a regioni meno abbienti. Un uso più proficuo dei fondi strutturali dell’Ue al fine di aiutare le regioni più povere a recuperare la distanza accumulata potrebbe riverlarsi risolutivo, una vera questione di sopravvivenza per alcuni stati membri.

È ormai certo che il processo di revisione del trattato inizierà subito dopo le elezioni europee del 2014. Finora tutti gli scenari più pessimisti di una spaccatura dell’Ue o della zona euro si sono dimostrati errati. La crisi ha accelerato il processo di unificazione europea da molti punti di vista, fiscale, finanziario e politico. E quanto più l’Ue procede verso una maggiore integrazione, tanto più le regioni che la compongono dovrebbero rivestire un ruolo più forte nel processo decisionale.

Il caso della Germania – lo stato federale di maggior successo nell’Ue – dimostra che una forte governance regionale e il federalismo non sono incompatibili. Al contrario: l’autonomia regionale in Germania conferisce legittimità democratica all’intera struttura federale.

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