La democrazia fa male alla crescita

L’idea che la democrazia può e deve essere sospesa per garantire la stabilità e lo sviluppo economico, un tempo promossa nei paesi poveri, oggi prende piede anche in Europa. La proibizione di un referendum in Slovenia ne è l’ultima prova.

Pubblicato il 25 Gennaio 2013 alle 12:21

In una delle ultime interviste prima della sua fine, Nicolae Ceauşescu si sentì chiedere da un giornalista occidentale come giustificasse il fatto che i cittadini romeni non potessero viaggiare liberamente all’estero nonostante la libertà di movimento fosse garantita dalla costituzione. La sua risposta fu nel solco della migliore tradizione dei sofismi stalinisti: “È vero”, disse, “la costituzione garantisce la libertà di movimento, ma garantisce anche il diritto a una patria sicura e prospera. Siamo quindi in presenza di un potenziale conflitto di diritti: se i cittadini romeni fossero autorizzati a lasciare il paese, il benessere della loro patria sarebbe a rischio. In questo conflitto, è indispensabile operare una scelta, e il diritto a una patria prospera e sicura ha naturalmente la priorità”.

Sembra proprio che questo principio sia ancora oggi vivo e vegeto in Slovenia. Il mese scorso la corte costituzionale ha stabilito che un referendum per approvare una legge che istituisca una “banca cattiva” e una holding sovrana sarebbe incostituzionale, e di fatto ha proibito il voto popolare. Il referendum era stato proposto dai sindacati dei lavoratori che contestavano le politiche economiche neoliberali del governo, e la loro proposta aveva raccolto un numero di firme sufficienti a farlo indire in ogni caso.

L’idea alla base dell’istituzione di una “banca cattiva” era far convergere tutto il credito tossico delle banche principali in una sola, così che le prime potessero essere salvate dai finanziamenti pubblici (quindi a spese dei contribuenti), scongiurando qualsiasi indagine su chi fosse responsabile di questo disastro. Questo provvedimento, di cui si è discusso per mesi, era ben lungi dall’essere approvato unanimemente, perfino dagli esperti di finanza. Perché dunque vietare il referendum?

Nel 2011, quando il governo greco di George Papandreou ha proposto un referendum sulle misure di austerity, a Bruxelles si era scatenato il panico, ma anche allora nessuno aveva osato proibirlo esplicitamente.

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Secondo la corte costituzionale slovena, il referendum “avrebbe provocato conseguenze anticostituzionali”. Ma come? La corte ha ammesso il diritto a indire un referendum, ma ha poi dichiarato che indirlo sul serio avrebbe messo a repentaglio altri valori costituzionali ai quali bisognerebbe dare la priorità in una crisi economica: il funzionamento e l’efficienza dell’apparato statale, specialmente nella creazione di condizioni propizie alla crescita economica; la realizzazione dei diritti umani, specialmente quelli connessi alla sicurezza sociale e alla libera iniziativa economica.

In sintesi, nel valutare le conseguenze del referendum la corte ha semplicemente accettato come dato di fatto che qualora non si obbedisse ai diktat delle istituzioni finanziarie internazionali (o non si soddisfacessero le loro aspettative) si potrebbe arrivare alla crisi economica e politica, e ciò sarebbe anticostituzionale. In termini più semplici, dato che soddisfare i diktat e le aspettative è il requisito di base per mantenere l’ordine costituzionale, questi hanno la priorità sulla costituzione (eo ipso sulla sovranità dello stato).

La Slovenia sarà anche un piccolo paese, ma questa decisione è sintomatica della tendenza universale a porre limiti alla democrazia. Il concetto di fondo è che in una complessa situazione economica quale è quella odierna, la maggioranza delle persone non è qualificata a prendere decisioni, in quanto inconsapevole delle conseguenze catastrofiche che ne deriverebbero qualora le loro richieste dovessero essere accolte.

Questa linea di pensiero non è nuova: un paio di anni fa, intervistato alla televisione, il sociologo Ralf Dahrendorf mise in relazione la crescente diffidenza nei confronti della democrazia con il fatto che, dopo ogni cambiamento rivoluzionario, la strada verso il benessere passa inevitabilmente attraverso una “valle di lacrime”. Dopo il crollo del socialismo non era possibile passare direttamente all’abbondanza di un’economia di mercato di successo: prima era indispensabile smantellare i pur limitati ma funzionali sistemi del welfare e dell’assistenza sociale, e questi primi passi sono inevitabilmente dolorosi.

Lo stesso vale per l’Europa occidentale, dove il passaggio dal welfare del secondo dopoguerra alla nuova economia globale ha comportato dolorose rinunce, minori sicurezze, minore assistenza sociale garantita. Per Dahrendorf il problema sta tutto nel fatto che questo doloroso passaggio attraverso una “valle di lacrime” si protrae per un tempo più lungo del periodo medio che intercorre tra due consultazioni elettorali, tanto che la tentazione di procrastinare qualsiasi decisione difficile a vantaggio di una vittoria elettorale a breve termine è sempre grande.

Per Dahrendorf l’insoddisfazione di vaste fasce delle popolazioni delle nazioni post-comuniste nei confronti dei risultati economici del nuovo ordine democratico è paradigmatica: nel 1989, ai bei tempi, per loro democrazia voleva dire abbondanza, quella delle società consumistiche occidentali. A vent’anni di distanza, non essendoci ancora tale abbondanza, puntano il dito contro la democrazia stessa.

Sfortunatamente, Dahrendorf rivolge molto meno attenzione alla tentazione contraria: se la maggioranza oppone resistenza agli indispensabili cambiamenti strutturali in ambito economico, una delle conclusioni più logiche non dovrebbe essere che per un decennio almeno un’élite illuminata debba prendere il potere, ricorrendo addirittura a mezzi non democratici, pur di adottare i provvedimenti necessari a gettare le premesse di una democrazia veramente stabile?

Seguendo questa linea di pensiero, il giornalista Fareed Zakaria ha fatto notare che la democrazia può “prendere piede” solo nei paesi economicamente sviluppati. Se i paesi in via di sviluppo sono “prematuramente democratizzati” ne risulta un populismo che conduce alla catastrofe economica e al dispotismo politico, e non stupisce quindi che i paesi del terzo mondo che oggi hanno maggior successo dal punto di vista economico (Taiwan, Corea del Sud, Cile) abbiano abbracciato la democrazia soltanto dopo un periodo di regime totalitario. Questa linea di pensiero non costituisce forse la migliore spiegazione per l’esistenza di un regime autoritario in Cina?

Guidati dai ciechi

Di nuovo oggi c’è il fatto che con la crisi finanziaria iniziata nel 2008, questa stessa sfiducia nei confronti della democrazia – un tempo limitata ai paesi in via di sviluppo del terzo mondo o ex-comunisti – sta guadagnando terreno nello stesso occidente sviluppato: quella che dieci o vent’anni fa era un’esortazione rivolta agli altri ormai riguarda noi stessi.

Il meno che si possa dire è che questa crisi ci offre la riprova che non è la gente comune a non sapere ciò che sta facendo, ma gli esperti stessi. Nell’Europa occidentale stiamo assistendo a una sempre più diffusa inettitudine delle élite al comando: sanno governare sempre meno. Si guardi per esempio a come si sta comportando l’Europa nei confronti della crisi della Grecia: esercita pressioni sui greci affinché ripaghino i loro debiti, ma al contempo nuoce alla loro economia imponendo drastiche misure di austerity. In pratica fa sì che il debito greco non possa mai essere ripagato.

Alla fine di ottobre dell’anno scorso, il Fmi stesso ha reso noto uno studio dal quale si evince che i danni economici inferti dalle aggressive misure di austerity potrebbero essere addirittura il triplo di quanto stimato in precedenza, e di conseguenza potrebbero rendere nullo il suo stesso invito all’austerità nella crisi della zona euro. Adesso l’Fmi ammette che costringere la Grecia e altri paesi oppressi dall’indebitamento a ridurre il proprio deficit troppo rapidamente sarebbe controproducente. Ma lo ammette soltanto dopo che centinaia di migliaia di posti di lavoro sono andati persi proprio a causa di “errori di valutazione” di questo tipo.

Ecco: è proprio qui che va ricercato il vero significato delle proteste popolari “irrazionali” che dilagano in tutta Europa. I manifestanti sanno molto bene ciò che ignorano. Non fingono di avere risposte facili e semplici, ma l’istinto suggerisce loro che malgrado tutto hanno ragione: anche chi è al governo non sa. In Europa, oggi, a guidare i ciechi sono altri ciechi.

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