Aeroporto di Parigi-Roissy, agosto 2010. Una famiglia di rom romeni "volontariamente rimpatriati" stanno per imbarcare per Bucarest.

Sarkozy non ha tutti i torti

L'espulsione dei rom dalla Francia ha scatenato reazioni indignate e idealistiche. Ma è giusto che i contribuenti paghino di tasca loro per dare ai rom istruzione e uno stile di vita "francese"? 

Pubblicato il 6 Settembre 2010 alle 14:27
Aeroporto di Parigi-Roissy, agosto 2010. Una famiglia di rom romeni "volontariamente rimpatriati" stanno per imbarcare per Bucarest.

Verso la fine delle vacanze estive il presidente francese Nicolas Sarkozy ha ordinato che i campi rom e le baraccopoli spuntate come funghi alla periferia della città francesi venissero smantellati, e i loro abitanti radunati e deportati. Da tutta Europa si alzato un coro di proteste, e ci si è interrogati sui reali motivi della decisione del presidente: si tratta di un diversivo demagogico per distogliere l'attenzione dal suo calo di popolarità? Sarkozy sta calpestando la legge?

D'altronde, i rom sono cittadini dell'Unione europea, ed hanno il diritto di spostarsi liberamente al suo interno. Il Vaticano si è messo di mezzo e le Nazioni unite, attraverso il Comitato per l'eliminazione della discriminazione razziale, hanno chiesto alla Francia uno sforzo per integrare le famiglie rom, educarne i figli e trovare loro una sistemazione decente.

Si tratta naturalmente di un'ideale ammirevole e assolutamente positivo. Tranne se sei un cittadino francese, hai vissuto in Francia tutta la tua vita, hai sempre pagato le tasse e un bel giorno ti svegli e trovi un accampamento da terzo mondo – chiamiamo le cose con il loro nome – in fondo al tuo giardino e lo vedi espandersi ogni giorno. Cosa dovrebbero fare le autorità? Non stiamo parlando di nomadi che comprano un pezzo di terra e ci si accampano durante un ponte vacanziero ignorando le disposizioni del piano regolatore. Quella in atto è un'incursione completamente diversa.

Quando l'Italia ha dovuto affrontare un problema simile, due anni fa, il governo si è tirato indietro e ha chiuso un occhio davanti a una serie di ronde non esattamente pacifiche. In Francia non si è ancora arrivati a tanto, forse proprio perché il presidente Sarkozy ha deciso di agire. Chiunque può condannarlo, ma per farlo deve avere un'alternativa da proporre. E trovarne una non è semplice.

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Si parla di intere famiglie che vivono senza servizi igienici, luce, acqua e gas, che quando lavorano lo fanno in nero, la cui vita in Francia è nonostante tutto migliore di quella che vivevano nel loro paese d'origine. Non hanno nessun motivo per tornare a casa. Allo stato attuale sono parassiti di uno stato di civiltà, materiale e culturale, che non hanno fatto nulla per creare e che da soli non sarebbero in grado di riprodurre.

Questa è la realtà dei fatti, nuda, cruda e politicamente scorretta. La mossa di Sarkozy potrebbe creare una popolazione in circolo perenne, fatta di individui che vengono ogni volta deportati e ogni volta cercano di tornare indietro. Tuttavia è giusto che i contribuenti francesi continuino a pagare di tasca loro per dare ai rom un'istruzione e mezzi per garantire alle loro famiglie uno stile di vita "francese"? È giusto chiedere alla Francia di facilitare quello stesso genere di integrazione che Romania, Bulgaria, Slovacchia e altri paesi hanno evitato?

Se la risposta è no, vuol dire che i rom dovranno essere privati della libertà di movimento garantita all'interno dell'Unione europea, anche se un provvedimento del genere sarebbe praticamente impossibile da far rispettare? Una cosa è certa: è stupido continuare a insistere sostenendo che il contrasto di stili di vita e aspirazioni di due culture vicine e parallele possa essere gestito facilmente, e i nuovi arrivati sistemati senza problemi. Se mai sarà possibile, saranno comunque necessari molto denaro e buona volontà.

Scontro di civiltà

Oltretutto la questione rom non è un caso unico. Circa un anno fa uno studio tedesco ha reso noto che, contrariamente alle previsioni, i turchi tedeschi di seconda e terza generazione decidono di sposarsi in Turchia, innescando un'ondata imprevista di quella che prima si chiamava immigrazione primaria e che si caratterizza sostanzialmente come un freno all'integrazione. Qualcosa di simile avviene con le comunità bengalesi e pakistane in Gran Bretagna, che riproducono la struttura dei loro villaggi in ampie sezioni delle città britanniche ma i cui membri cercano le loro spose "a casa".

La teoria che dice che l'integrazione è semplicemente una questione generazionale non è stata dimostrata. Gran Bretagna, Francia e Germania hanno cercato all'estero manodopera a basso costo, e l'hanno trovata. Tuttavia reclutando lavoratori in aree rurali e in paesi meno sviluppati abbiamo trapiantato interi villaggi e importato microcosmi caratterizzati dalla stessa arretratezza che la nostra civiltà aveva superato.

Grazie alla possibilità che gli immigrati importino spose, mariti e dipendenti dal loro paese di origine, la Gran Bretagna si ritrova con problemi interni di voto di scambio, matrimoni forzati, rapimenti, delitti d'onore disabilità causate da matrimoni tra cugini, come ha mostrato di recente un programma di Channel 4. È tornata la tubercolosi, malattia di epoca vittoriana e un tempo quasi debellata, il cui trattamento richiede denaro e manodopera che i paesi ricchi pensavano di poter spendere altrimenti.

In un certo senso si tratta di un classico rompicapo post-coloniale, e le nostre generazioni post-coloniali dovrebbero pagare senza lamentarsi. Dopo tutto un tempo siamo stati noi a prendere da quei paesi. Tuttavia l'attraversamento massiccio dei confini da parte di nutriti gruppi di persone minaccia di scatenare proprio davanti ai nostri marciapiedi uno scontro di civiltà. E al centro dei contrasti non ci sarà la religione, ma lo stile di vita. (traduzione di Andrea Sparacino)

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