Il premier Recep Tayyip Erdogan di fronte a un ritratto di Mustafa Kemal.

La Turchia va avanti da sola

La vittoria del sì nella consultazione sulla riforma della costituzione è un passo decisivo verso la transizione democratica e liberale del paese. Ma l'ingresso nell'Ue non è più il motore di questo processo epocale.

Pubblicato il 13 Settembre 2010 alle 13:53
Il premier Recep Tayyip Erdogan di fronte a un ritratto di Mustafa Kemal.

In un suo recente intervento Fadi Hakura, esperto di Turchia di Chatham House, ha messo in discussione l’opinione diffusa seconda cui senza l’Europa “la Turchia sarebbe incapace di diventare una democrazia liberale”. Secondo l’autore “mentre il processo di adesione all’Unione Europea è in agonia, la società turca sta vivendo una vera trasformazione e si sta avviando verso una vera democrazia, una società laica e un generale processo di rinnovamento socio-economico. L’Europa sbaglia a tenere in disparte quello che è un autentico faro di speranza e ispirazione per molti paesi, musulmani e non, capace di plasmare il proprio futuro facendo affidamento unicamente sulle proprie forze. Per la Turchia, in ogni caso, dipendere meno dall’Unione Europea potrà significare in definitiva affrancarsi dal mito che soltanto l’Europa può incoraggiare la sua liberalizzazione e, di conseguenza, quella dei paesi arabi mediorientali”.

Ha ragione Hakura? Una cosa è certa: la modernizzazione ottomana seguì in gran parte il modello europeo. Di conseguenza fu percepita come un processo di occidentalizzazione. Nei suoi primi anni di vita la Repubblica turca si ispirò in buona parte al modello dei paesi autoritari europei (Germania, Italia e Unione Sovietica). Alla fine della seconda guerra mondiale Ankara si rivolse alle democrazie occidentali, e dopo la Guerra Fredda fu il turno dell’Unione Europea.

La candidatura della Turchia all'adesione Ue nel 1999 non ha soltanto ha indotto la trasformazione in senso liberale dell'islamismo turco, ma anche la nascita di un’ampia coalizione filoeuropea, che comprende perfino le forze armate del paese. Tra il 2001 e il 2005 varie riforme costituzionali e legislative - che di fatto hanno dato il via alla transizione dalla burocrazia a una democrazia "europea" - sono state adottate grazie al consenso e all’intesa tra il partito Giustizia e Sviluppo (Akp) e il Partito popolare repubblicano (Chp).

Nel 2005, però, alcuni segnali negativi riguardo all’adesione – tra cui l'affermazione da parte della Francia che la Turchia non farebbe parte dell’Europa – hanno portato a un significativo calo del supporto dei turchi all’ingresso nell’Ue. Di conseguenza i partiti d’opposizione guidati dal “socialdemocratico” Chp hanno iniziato a opporre una strenua resistenza alle riforme volute dall’Ue. Il “soft power” dell’Unione nei confronti della Turchia – ovvero la capacità di porsi come modello da seguire – ha perso molta della sua incisività, per non dire tutta.

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Il secondo balzo in avanti

Gli emendamenti introdotti dal referendum rappresentano un secondo enorme balzo in avanti (dopo le riforme attuate tra il 2001 e il 2005) nel processo di transizione verso una democrazia liberale. Le riforme sono conformi ai requisiti voluti dall’Ue per l’adesione. A cominciare dalla Commissione, le istituzioni europee hanno espresso il loro pieno appoggio, dichiarando che “la Turchia sta andando nella direzione giusta”.

In ogni caso, l’approvazione degli ambienti Ue pare aver avuto scarsa influenza sulla campagna referendaria: i partiti dell’opposizione hanno continuato a opporsi agli emendamenti costituzionali, al punto che il nuovo leader del Chp, Kemal Kılıçdaroğlu, è arrivato a dichiarare che l’Akp aveva comprato l'appoggio dei funzionari Ue. Alcuni ambienti dell’opposizione, inoltre, hanno affermato che bisognava sconfiggere il referendum per evitare che la Turchia continuasse a essere “governata da Washington e da Bruxelles”.

I portavoce del fronte del “sì” al referendum hanno fatto scarsi riferimenti all'ingresso nell’Ue, e hanno preferito piuttosto esaltare la necessità di mettere fine al regime di vigilanza dei processi burocratici, chiudere il capitolo dei colpi di stato militari e adottare una costituzione popolare e civile invece di quella militare, oltre all'avanzamento democratico ed eeconomico. (traduzione di Anna Bissanti)

Reazioni

L’Europa applaude

L'ampio successo (il 58 per cento) del referendum costituzionale in Turchia ha suscitato parecchi commenti in Europa. Per la Stampa le misure principali di questa iniziativa - la riduzione del ruolo dei militari nella giustizia civile, nella Corte costituzione e nel Consiglio di sicurezza nazionale - "sono eventi di grande portata emblematica, che marcano il crepuscolo del kemalismo e danno inizio a una sorta di controrivoluzione islamica".

"Si può ben dire che Erdogan è uscito sostanzialmente premiato da una prova plebiscitaria che per tema centrale aveva il giudizio popolare sui suoi movimentati otto anni di governo", osserva Enzo Bettiza. Anni "molto travagliati nell'ondivago rapporto della Turchia erdoganiana con l'Europa incerta da una parte e le attraenti sirene islamiche dall'altra".

"Le riforme non faranno della Turchia una dittatura islamica, come affermano i critici di Erdogan", afferma invece Tagesspiegel. "Queste riforme democratizzano il paese, anche se rimane ancora molto da fare prima che la Turchia raggiunga i livelli europei". Per il quotidiano di Berlino, "il sì dei turchi è un segnale importante".

Per fare in modo che "la Turchia non sia più una democrazia imperfetta e possa integrarsi nei valori dell'Ue", osserva El País, il paese "ha bisogno che i militari rimangano nelle caserme e che i giudici si limitino a essere l'espressione imparziale della legge. Ma la Turchia ha anche bisogno di un'alternanza ai vertici del potere", come qualunque altro paese europeo.

Il romeno Adevărul ritiene che la "Turchia abbia votato per l'islamizzazione e la demilitarizzazione". Ma il quotidiano osserva soprattutto che "il cavallo di battaglia di Erdogan", la fine dell'impunità per gli autori del colpo di stato del 1980, "sia praticamente svanito nel nulla", poiché il reato è caduto in prescrizione dal giorno del referendum. Di conseguenza il processo dei generali chiesto dall'Ue non si farà.

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