Photo: Andrey

Le figlie del comunismo alla conquista del mondo

Le ragazze che sono nate a metà degli anni Ottanta nei paesi all’epoca comunista sono oggi delle giovani donne attorno ai 25 anni. Con consapevolezza sfruttano le possibilità che vengono loro offerte dal passaggio del loro paese al capitalismo, dall’allargamento europeo e dalla globalizzazione economica. Testimonianza di una generazione oltre il muro che vuole liberarsi dell’etichetta “comunista”.

Pubblicato il 29 Giugno 2009 alle 08:33
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Cecilia 22 anni, dalla Bulgaria,si è trasferita ad Erlangen, per studiare cinema e teatro, Katharina dalla Slovacchia, 20anni, dopo l’università vuole lavorare in tutto il mondo come diplomatica e Anna dalla Repubblica Ceca a 28 anni è docente all’Università di Brno: sono questi i nuovi volti femminili dell’Europa.

Comunismo: un’etichetta di cui non ci si libera più vent’anni dopo la caduta del muro. Cosa associano queste giovani donne al comunismo? In tempi di globalizzazione e allargamento europeo fa ancora una differenza la nazione in cui si è nati? «Il fatto che io sia nata in un Paese comunista non mi cambia molto. A volte i miei genitori me ne parlano, ma io conosco solo il sistema capitalista», dice Katharina. Per quanto a lei sia indifferente, la infastidisce la percezione del suo paese dall‘estero: «Quando leggo i giornali internazionali, specialmente gli articoli americani sulla Slovacchia, si parla sempre di un Paese post-comunista. È come un’etichetta di cui non ci libereremo mai». L'esile ma risoluta Cecilia è ancora più radicale in merito al passato comunista della sua nazione: «Le persone dovrebbero finalmente smetterla di vivere nel passato», Cecilia definisce la forma di governo socialista «un’utopia», sebbene comprenda le buone intenzioni dei socialisti. «Non credo che si possa rendere le persone tutte uguali. Ci saranno sempre persone con più ambizioni e curiosità di altri, ognuno deve poter crescere come vuole».

Anna è convinta che il suo passato non l’abbia forgiata più di quanto sarebbe successo se fosse nata altrove. «Quasi ogni nazione ha un passato che può avere influenzato negativamente i suoi abitanti. Il mio lavoro è ciò che io sono veramente». Queste giovani donne traggono la loro autocoscienza dai propri obiettivi e dalle possibilità professionali. Anna, solitamente riservata, racconta con passione e fervore la sua evoluzione che le sembra una naturale predisposizione: «A volte penso che non sono io ad aver scelto il mio lavoro, ma che sia stato lui a scegliere me». Dopo aver studiato cinematografia Anna, grazie alla sua tenacia e precisione, a 28 anni è docente e ricercatrice all'istituto di cinematografia della Masaryk University di Brno. Pubblica saggi in più lingue su film muti e sullo sviluppo storico delle tecnologie cinematografiche. Nonostante le difficoltà decisionali iniziali il suo percorso è un successo, si identifica con quello che fa: «Il mio lavoro è ciò che sono veramente». Per Cecilia andarsene dalla Bulgaria è stato un modo per emanciparsi: «Per me era importante essere indipendente e non dover più vivere con i miei genitori». Per lei il lavoro non è solo un modo per guadagnare soldi ma anche una possibilità per scoprire «cosa succede attorno a noi, che diritti e privilegi si hanno. Solo così si può cambiare qualcosa».

Secondo la dott.ssa Christina Klenner, direttrice del dipartimento di ricerca femminile e di genere presso la fondazione Hans-Böckler, la naturalezza con cui queste giovani donne affrontano la loro evoluzione professionale è da ricondursi all’elevata quota femminile al mercato del lavoro nei paesi post-comunisti. Secondo alcune statistiche del 2005 la presenza femminile nei rapporti di lavoro remunerati è sì diminuita dopo il crollo del sistema, ma la popolazione femminile attiva nei Paesi membri del centro e dell'est Europa è comunque al di sopra della media Ue-15. Nessuna delle giovani si definisce femminista, per loro il loro modo di vivere e lavorare è naturale: «Mi sento molto bene in quanto donna, sono felice di quello che sono», dice Katharina. Anche Anna afferma: «In primis mi considero una persona. Non mi sono mai chiesta se vengo trattata diversamente perché sono donna. Sono solo cresciuta così». Il diverso trattamento tra uomo e donna lo percepiscono solo in un settore: il mercato del lavoro. Katharina si arrabbia: «Quando gli uomini guadagnano più soldi delle donne per lo stesso lavoro, mi arrabbio molto. È come se gli uomini percepissero un “bonus” extra per il loro pene». Secondo uno studio della Friedrich-Wilhelm-Universität del 2005 “Sulla comprensione dei ruoli di genere nell’Europa orientale e occidentale”, una buona parte delle donne intervistate provenienti dai Paesi dell’est Europa pensa che la parità della donna nel proprio paese non sia ancora stata raggiunta, specialmente nel mercato del lavoro. Per loro una parità reale dei diritti non si ottiene con un’equiparazione di uomini e donne, ma con l’accesso agli stessi diritti.

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La flessibilità e mobilità con cui Cecilia, Katharina e Anna stanno cambiando l’Unione europea, potrebbe essere uno stimolo anche per un ulteriore sviluppo dei loro paesi d'origine: «Molti europei dell’est sarebbero felici di poter tornare nuovamente nel loro paese», dice Anna. «Se lì avessero la possibilità di vivere, lavorare e sopravvivere». Katharina non si sente “solo” un’europea ma piuttosto una cittadina del mondo. «Non mi piace quando le persone restano troppo attaccate alla loro provenienza, questo genera solo conflitti etnici e nazionali». Cecilia riassume nel modo migliore la scissione interna tra la sua patria e le possibilità che l’Europa le offre: «Forse l’unica cosa che conta sempre è che io sono salda tra due culture».

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