Gli euroscettici, un’opportunità per l’Europa?

L'ondata antieuropea annunciata dai sondaggi non sconvolgerà le istituzioni dell'UE. Potrebbe al contrario essere l'occasione per una classe politica inerte e priva di idee di uscire dal suo torpore, sostiene il politologo Piero Ignazi.

Pubblicato il 23 Maggio 2014 alle 10:48

Dobbiamo aver paura degli euroscettici? Le istituzioni europee saranno scardinate dall’onda variopinta dei critici delle politiche e dell’esistenza stessa dell’Ue che si riverserà nelle urne alle elezioni per il parlamento europeo? La risposta è un doppio no.

Anzi. Dobbiamo augurarci che il voto agli euroscettici sia ampio, e che le classi dirigenti dei maggiori paesi e l’establishment bruxellese siano colti dal timore di non essere in sintonia con una larga parte dell’opinione pubblica. Non è un euroscettico chi scrive queste parole, al contrario. Solo che non si possono chiudere gli occhi rispetto al gap tra le tante cose positive realizzate e l’incapacità da parte dei decisori politici, tanto a livello nazionale quanto a livello comunitario, di rendere partecipi i cittadini del progetto europeo, e di dargli nuovo impulso.

L’Unione europea aveva una grande chance per fare un passo in avanti decisivo e l’ha mancata. L’ondata di protesta che sta montando - e che unirà sia i “souvraniste” che non vogliono cedere competenze nazionali, sia i nemici dell’austerità “imposta” da Bruxelles – è frutto della chiusura e della cecità delle élite di fronte alla grande crisi.

La crisi finanziaria e poi economica è arrivata lentamente in Europa. C’era tutto il tempo per prevedere gli esiti e preparare i rimedi. Ma per far questo era necessaria una visione comune. Un barlume di speranza venne accesso quando il primo ministro britannico, Gordon Brown, nello smarrimento dei leader europei, indicò una via d’uscita al meeting del G8 e del G20 nell’ottobre 2008. Purtroppo fu un fuoco di paglia.

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La debolezza politica di Brown unita alla sua estraneità al circolo dell’Euro seppellì quell’opportunità di una gestione intelligente ed equilibrata. Da quel momento la crisi si è aggravata e l'Europa si è avvitatata in una spirale di egoismi nazionali guidati da una cancelliera priva di visione strategica e digiuna di storia. Forse, se avesse frequentato i circoli della dissidenza della Germania – e dell’Europa - dell’Est nei suoi anni formativi, avrebbe compreso appieno l’importanza della solidarietà, anche a livello continentale. Ma tant’è.

Paradossalmente le difficoltà degli anni post-2008 potevano fornire un'altra occasione per fare passi avanti nella costruzione europea proprio come è successo, molte altre volte nel passato, quando di fronte al burrone l'Europa faceva un salto in avanti. Anche di fronte alla più drammatica delle manifestazioni di impotenza europea, lo scatenamento della violenza e il deflagrare delle guerre in Jugoslavia, poi – benché con drammatico e colpevole ritardo - l’Unione ha saputo come reagire: accelerando al massimo il processo di integrazione dei paesi centro-orientali.

Ora siamo a sei anni dall’inizio della catastrofe e, a parte la Bce di Mario Draghi (non quella di Jean-Claude Trichet), nessuno è stato in grado di fare alcunché non per risolvere la crisi, sarebbe stato troppo chiederlo, bensì per assegnare un ruolo positivo all’Europa nella gestione dell’economia continentale. L’Europa è parsa inerte, inetta e persino matrigna. Il trattamento punitivo inflitto alla Grecia è del tutto ingiustificabile se non con argomentazioni sottilmente razziste. Tutto il contrario di come dovrebbe comportarsi una comunità, anche con il suo componente più scapestrato.

Il senso di appartenenza solidale, quello su cui è nato il progetto europeo, è stato incrinato da egoismi, piccinerie e sottili quanto tortuosi percorsi di riaffermazione nazionale. Di fronte allo spettacolo fornito in questi anni da una miriade di dichiarazioni pompose e vuote, da una infinità di meeting costellati da altrettanti impegni altisonanti, come doveva reagire un’opinione pubblica affannata dalle crescenti difficoltà del vivere quotidiano? Quale sentimento poteva provare nei confronti dell’Unione quando non vedeva né solidarietà, né progettualità? Difficile pensare che il fiscal compact o l’unione bancaria possano fornire cemento “identitario” e innescare fiducia. Certo, sono passaggi importanti e sappiamo che l’integrazione si è fatta per piccoli passi e per stop and go. Ma le faticose mediazioni che escono dai consigli europei mancano di “allure”.

L’ultimo slancio vero, mobilitante, capace di far sognare, è vecchio di più di un decennio quando venne coraggiosamente (per una volta) deciso di allargare ad est i confini dell’Unione. Anche allora però le paure degli idraulici polacchi - cioè le fantasie di una invasione di lavoratori a basso a prezzo e di migranti tout court – sterilizzarono quello slancio.

Quindi, in un contesto di crisi economica, di frustrazione per le supposte o reali deficienze dell’Unione nel proteggere i cittadini dalla crisi, e di riaffermazione sempre più esplicita di interessi nazionali, la fatica di ridare spinta alla costruzione europea è immane. E ricade tutta sulle spalle di coloro che si vogliono definire ancora e cocciutamente euro-entusiasti. E’ una fatica improba perché gli short-cuts cognitivi dell’euroscetticismo sono molto più “facili”: in un contesto di incertezza, identificare un capro espiatorio - e tanto meglio se è lontano e opaco come gli gnomi di Bruxelles e le loro corti – rimane una soluzione sicura. Ben più arduo indicare i successi dell’integrazione che pure sono sotto gli occhi di tutti e di così abbagliante chiarezza da essere diventati invisibili.

Chiudiamo di nuovo le frontiere, eliminiamo l’Erasmus e i suoi discendenti, ripristiniamo dazi e dogane, lasciamo andare ogni paese per la propria strada, e vediamo in che inferno precipitiamo! Questo va detto agli euroscettici. Va ricordata cos’era l’Europa prima della Ceca, del trattato di Roma, di quello di Maastricht e poi di Lisbona, per non citare che alcune tappe fondamentali. Vanno ricordate le quattro libertà di Maastricht, le quattro “unioni” del Consiglio europeo del giugno 2012 (unione bancaria, fiscale, budgettaria e, infine, politica).

Ma soprattutto, va ricordata cos’era l’Europa in macerie dopo la seconda guerra mondiale.

Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi l’avevano capito prima e con più chiarezza di ogni altro: il male dell’Europa, e non solo di questo continente, si annida nei nazionalismi. L’individuazione del nemico nello straniero, nel diverso, nell’"altro”, in chi sta al di là del limen, contiene potenzialità devastanti, e lo ha terribilmente dimostrato nella prima parte del secolo breve. La bomba ad orologeria dei nazionalismi è comunque sempre innescata. A ricordarcelo ora, visto che non sono bastate le guerre jugoslave, vengono i nemici interni.

La nuova, faticosa, ed anche sbilenca, architettura, che costituisce pur sempre un tentativo di non marcare, all’interno di un vasto territorio, dei limes invalicabili. Ed è questa architettura che gli euroscettici vogliono stravolgere. Il ritorno alle piccole patrie, il recupero della “sovranità economica”, la chiusura delle frontiere sono tutte regressioni verso un passato illusoriamente più prospero, sereno ed ordinato. Sono illusioni pericolose perché irrealizzabili, e soprattutto perché distruttive di questo nuovo, disordinato ordine europeo, fondato sulla comunanza di principi e di intenti. Certo, in tutti questi anni l’Europa è scivolata verso una riduzione a spazio di libero scambio, verso un economicismo schiacciasassi, verso una contrazione della comunitarizzazione: ha del tutto dimenticato la sua mission.

E ci stupiamo se ora l’euroscetticismo ha il vento nelle vele? Se di fronte alle crepe che quella visione della costruzione europea ha aperto nel feeeling dell’opinione pubblica verso l’Unione non ci sia un moto di rifiuto? I partiti euroscettici sono figli delle deficienze delle classi politiche europee. Spetta ad esse, quindi, trovare i modi per disinnescare la loro portata disgregatrice. Del resto, e per fortuna, gli euroscettici, per quanto sulla cresta dell’onda, sono separati tra loro da diverse linee di frattura: ad esempio, i nazional-populisti del Front national, della LegaNord niente hanno a che vedere con i critici arrembanti ma democratici dell’UKIP di Nigel Farage o del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo – per non dire dei neo-fascisti del Jobbik ungherese. E quindi non costituiscono un insieme coerente e unito; ben difficilmente potranno trovare una piattaforma comune nel prossino Parlamento europeo.

Le istituzioni dell’Unione in quanto tali non corrono alcun rischio da un loro eventuale successo. Tuttavia, per la prima volta si manifesta con forza una espressione politica di quel sentimento di distacco e di sfiducia che circola da tempo nelle opinione pubblica europea. Alla fine, ex malo bonum: che da tutto ciò emerga una salutare scossa per una classe politica che indugia nei corridoi felpati dei palazzi bruxellesi o in quelli più convulsi ma sempre distratti delle capitali europee.

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