Opinion, ideas, initiatives Golpe mancato in Turchia

I golpisti hanno regalato a Erdoğan il regime che sognava

Sin dall’indomani del colpo di stato mancato sono cominciate le purghe nell’esercito, nella magistratura, fra gli insegnanti e i mezzi d’informazione, e l’autoproclamato “eroe della democrazia” ha colto l’occasione per mettere al passo il paese, sostiene il politologo turco Cengiz Aktar.

Pubblicato il 22 Luglio 2016 alle 14:37

Mancava solo il colpo di stato nella spaventosa serie di eventi funesti che hanno colpito la Turchia dal luglio 2015, da quando il partito di Recep Tayyip Erdoğan, uomo forte della Turchia, ha perso la maggioranza assoluta alle elezioni legislative del 7 giugno 2015. Le elezioni sono state ripetute in un clima di violenza deleteria, al fine di ridare nel novembre scorso la maggioranza al partito al potere, l’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo).

A quanto pare questa vittoria di novembre non è bastata per stabilizzare la Turchia, scossa dalla guerra coi curdi, dalle conseguenze della guerra civile siriana, da una relazione ambigua con l’islam radicale, compresa quella col gruppo Stato islamico (Is), da un incredibile isolamento rispetto al mondo e la regione, da relazioni sempre più tese con gli alleati occidentali, un’economia in difficoltà e il regime sempre più autoritario, per non dire totalitario, del presidente Erdoğan.

Il colpo di stato è stato molto probabilmente messo in atto da dei militari sostenitori del predicatore Fethullah Gülen, un tempo ispiratore di Erdoğan e oggi la sua bestia nera, e kemalisti, sostenitori della laicità voluta dal “padre della patria”, Mustafa Kemal Atatürk.

Brutalità quasi gratuita

Il mondo in cui è stato messo in pratica questo ennesimo colpo di stato non corrisponde troppo alla secolare esperienza dell’esercito turco in materia. Assomiglia più ai golpe degli stati africani fomentati da alcune fazioni interne all’esercito. È stato intanto di una violenza inaudita. Non che i colpi di stato siano “pacifici”, ma questo è stato segnato da una brutalità quasi gratuita, come dimostrano le esecuzioni sommarie, quel carro armato golpista che fa piazza pulita di tutto quanto si muove davanti a lui. Sono 265 le persone, di tutti gli orientamenti, che hanno perso la vita, e circa 1.500 i feriti.

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È stato anche (fortunatamente) molto goffo, avendo evitato di colpire i principali dirigenti, bombardando il parlamento con aerei militari e lasciando liberi i media pro-Erdoğan di continuare le loro trasmissioni e d’invitare così a resistere. Ma non bisogna per questo credere che sia stato l’invito alla resistenza dei responsabili politici o della direzione generale degli affari religiosi (sunniti), che ha intimato agli imam d’invitare il popolo ad opporsi al colpo di stato, che ha determinato il fallimento di quest’ultimo. Né la violenza, degna dell’Is, delle milizie dell’Akp. Osservando con più attenzione, è l’insieme delle forze armate a non aver risposto come sperato, con i servizi di polizia e d’intelligence che hanno efficacemente sventato il colpo di stato.

La Turchia, contrariamente alla Spagna post-franchista, non ha “demilitarizzato” il suo sistema politico mettendo così l’esercito al servizio dello stato. Salito al potere, l’Akp ha abilmente utilizzato i pre-requisiti richiesti dall’Unione europea per limitare in maniera efficace il peso politico dei militari. Ha “civilizzato” istituzioni militari quali il Consiglio nazionale di sicurezza. Ma non ha mai toccato l’autonomia giuridica e finanziaria dell’esercito. I militari hanno conservato il loro sistema giudiziario interno e hanno regolarmente incassato il loro assegno in bianco all’inizio di ogni anno fiscale, senza dover rendere conto a nessuno. Il regime ha così vassalizzato l’esercito e quest’ultimo è stato felice di mantenere i suoi privilegi pur garantendo la sua lealtà al regime.

Due sistemi dittatoriali

Inoltre il sistema di potere dell’Akp è riuscito a creare un complesso militare-industriale nel quale gli uomini d’affari pro-Akp e i militari lavorano a braccetto. Infine, il potere ha ampiamente “islamizzato” a proprio vantaggio i sotto-ufficiali, rimuovendo per quanto possibili tutti gli esponenti aleviti [movimento sciita]. Restavano i gülenisti e i kemalisti, i prossimi obiettivi.

In effetti, all’indomani del golpe, il potere ha cominciato le sue purghe tra i militari, colpendo naturalmente i responsabili del putsch, ma anche nell’apparato giudiziario. A oggi, più di sessantamila persone implicate – funzionari del ministero della giustizia, dell’interno, dell’istruzione, dell’ambiente, degli affari sociali e della difesa sono state arrestate, costrette a dimettersi o indagate.

Ha inoltre promesso di reintrodurre la pena di morte, ha permesso alle sue milizie di vendicarsi, con metodi degni dell’is, non solo dei golpisti (fatto rarissimo in Turchia: un generale a quattro stelle è stato pestato) ma anche su qualsiasi velleità d’opposizione al regime al potere. Da qualche giorno, un numero incalcolabile di siti d’informazione sono stati messi offline, accusati di vicinanza coi gülenisti. Il regime sembra deciso a sradicare il gülenismo ovunque si trovi. È verosimile che l’opposizione seguirà lo stesso cammino.

Sembra che dopo il fallimento del colpo di stato militare la Turchia non sarà uno stato più democratico, come lasciano goffamente trasparire le dichiarazioni interne e sentite all’estero. È da molto tempo che l’equilibrio politico in Turchia non oscilla più tra democrazia e dittatura, ma tra due sistemi dittatoriali. La realtà è che il regime si sente attualmente rafforzato nell’ imporre costituzionalmente un sistema presidenziale forte alla Vladimir Putin, senza freni né contro-poteri.

In questo i militari golpisti, qualunque fossero la loro appartenenza, le loro motivazioni iniziali e le loro finalità, hanno offerto a Erdoğan su un piatto d’argento il regime presidenziale che sogna dal 2010. Per “l’eroe della democrazia” si tratta, fin da subito, di lanciare un processo di presidenzializzazione tramite referendum (o tramite elezioni anticipate) che è sicuro di vincere. Dichiarando apertamente il 15 luglio “giorno della democrazia”, il potere ha consolida la sua nuova legittimità e si prepara a sancire la sua autorità assoluta.

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