Attualità Ripensare l’Europa/1

Il momento delle scelte

La crisi dell'euro è stata innescata da fattori congiunturali, ma amplificata dai difetti strutturali dell'Unione. Troppi obiettivi sono stati fatti confluire a forza nel progetto europeo: per andare avanti bisogna sacrificare qualcosa.

Pubblicato il 21 Luglio 2011 alle 14:41

Oggi sono tutti d'accordo sul fatto che l'Unione europea si trova in un momento chiave della sua storia. Le uniche divergenze di vedute riguardano le cause della situazione attuale, il suo significato profondo e le sue prospettive. Fatto interessante, tutto ciò arriva dopo due decenni di sviluppo intensivo dell'integrazione europea. Dal 1989 l'Unione europea è passata di successo in successo. Anche se ogni tanto ha ceduto all'abitudine di "amletizzarsi" un po', alla fine tutti ci si sono abituati.

Le ragioni dell'impasse in cui si trova l'Ue sono molteplici, sia congiunturali che strutturali. Alla prima categoria appartiene il crollo finanziario dell'anno 2008-2009, arrivato dagli Stati Uniti. All'epoca l'enorme debito pubblico della maggior parte dei paesi Ue, in modo particolare di quelli appartenenti all'eurozona, è stato improvvisamente messo a nudo. La causa è semplice: il desiderio di vivere oltre i propri mezzi, al di là del valore del lavoro e sulle spalle degli altri. Gli stati europei volevano raggiungere un tenore di vita migliore diminuendo al contempo le tasse. Gli avidi alchimisti della finanza hanno dato il colpo di grazia al processo di distruzione. Tuttavia la crisi finanziaria, profonda e ingiusta per quanto riguarda la ripartizione dei costi sociali, può essere superata.

La crisi dell'Unione come progetto politico e quella del modello attuale di integrazione sono invece molto più profonde. Le loro cause sono strutturali. L'Unione è diventata "troppo grande", troppo disparata in termini di membri e divisione dei compiti. È stata diluita. In altre parole, è diventata meno coerente con se stessa. "Chi troppo vuole, nulla stringe", dice il proverbio. I leader europei si affannano intorno ai meccanismi e alle procedure, e in questo modo assicurano un certo livello di funzionamento. Tuttavia, con un numero così elevato di stati membri e di interessi diversi in ballo, l'Unione non riesce più a svilupparsi né a reagire con fermezza ai problemi e alle minacce interne, per non parlare di mantenere una posizione coerente e ben chiara sulle complesse questioni internazionali.

Dietro la debolezza interna ed esterna dell'Ue ci sono altre ragioni. In particolare va sottolineata quella che comincia ad essere definita "cultura della connivenza" (A. Kukliński). Si tratta di una volontà deliberata di non modificare una decisione presa in precedenza, non importa quanto si riveli sbagliata. L'esempio del riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo aiuta a capire meglio di cosa stiamo parlando: da anni l'Unione si ostina a sostenerla con l'aiuto della Nato. Allo stesso modo sono anni che le istituzioni dell'Ue sono a conoscenza dello stato delle finanze del Grecia, ma non hanno mai fatto nulla che potesse guastare la festa ad Atene. Questo eccesso di "cortesia" non si limita alla Grecia. L'opportunismo legato al politically correct impedisce di affrontare risolutamente il problema del calo demografico, perché il concetto attualmente in voga di diritti umani impone decisioni opposte. E così via. Sempre più spesso l'Unione si comporta come facevano gli intellettuali francesi: "meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron".

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Zoccolo duro

Alla luce di ciò si possono immaginare facilmente diversi scenari per lo sviluppo futuro dell'Unione. Due di essi sembrano particolarmente plausibili. Nel primo l'Ue funzionerebbe un po' come il consiglio d'Europa e l'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), anche se in una versione parecchio più integrata. I nuovi membri non consolideranno la potenza dell'Ue, ma la indeboliranno. L'Unione diventerà molle, poco reattiva e arroccata sul mantenimento di norme e procedure. Sarà impossibile perseguire la logica di una "Unione sempre più stretta" sancita dal trattato di Maastricht. Una simile Unione sarà un terreno fertile per le decisioni unilaterali dei suoi membri.

Il secondo scenario implica una maggiore integrazione, da raggiungere attraverso i trattati e le regole della cooperazione che vi sono incluse o in modo parallelo agli strumenti già esistenti, come le caso del patto Euro Plus. Naturalmente questo percorso prevede la definizione di uno zoccolo duro, che scaturirebbe dalla geometria variabile delle diverse forme di cooperazione rinforzate. Non è niente di spaventoso né di nuovo. Negli anni cinquanta le comunità europee sono nate proprio perché alcuni paesi del Consiglio d'Europa rifiutavano un'integrazione più stretta. Quando la Cee si è rivelata un successo, altri paesi si sono aggiunti al progetto. Un processo simile potrebbe già essere cominciato con la creazione del meccanismo finanziario per la stabilizzazione e il rafforzamento della coordinazione delle politiche macroeconomiche, messo a punto per salvare l'euro dalla crisi. Non tutti ne faranno parte. Si spera che un dispositivo simile sia creato per gestire la politica di sicurezza e di difesa.

È arrivato il momento di fare scelte difficili, di dire addio alle nostre ingenue pretese di allargamenti in serie e di smettere di rabbrividire all'idea di uno zoccolo duro, di cui tra l'altro la Polonia potrebbe fare parte. Non si può avere tutto: una comunità dai valori comuni che vada da Karsk e Donetsk fino a Lisbona e Reykjavik, una Ue a 35 membri unita e solidale, un'Unione con una precisa identità internazionale, decisa e credibile sulle questioni di sicurezza, il tutto coinvolgendo i paesi apertamente indifferenti a tutte queste problematiche. Il nostro obiettivo dev'essere la creazione di un'Unione nella quale ci sia più Aron che Sartre. Dobbiamo fondare un'Unione più stretta, più audace e allo stesso tempo sempre benevola verso il suo entourage. (traduzione di Andrea Sparacino)

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