Un Nobel alla carriera, non al merito

Pubblicato il 12 Ottobre 2012 alle 14:56

Questo matrimonio non s’aveva da fare. Dopo l’annunciato fallimento della fusione tra Eads e Bae, le parti in causa hanno subito cominciato a scaricarsi la colpa. In realtà le cause del fiasco possono identificarsi in tre ben note idiosincrasie: l’ossessione della Francia per la sovranità nazionale, il disprezzo del Regno Unito per le logiche continentali e la sua preferenza per la “special relationship” con gli Stati Uniti e l’incapacità della Germania di superare il provincialismo economico-elettorale e il complesso d’inferiorità con Parigi.

Sebbene non fosse un matrimonio d’amore, questa unione aveva certamente dalla sua la convenienza, soprattutto sul piano economico. Ma c’è dell’altro. Per una significativa coincidenza, il tabloid popolare tedesco Bild e il quotidiano economico Handelsblatt hanno entrambi definito il fallimento della fusione “un colpo al sogno europeo”. Non è un’esagerazione. La nascita di un grande gruppo paneuropeo poteva costituire il nucleo dell’“Europa della difesa” più volte invocata come prerequisito per l’integrazione politica ed economica.

L’industria della difesa, in scienza politica il “complesso militare-industriale”, è una delle strutture portanti dello stato moderno. Oltre alla dimensione puramente strategica, essa influenza in modo determinante la politica estera. La decisione di vendere armamenti a un governo straniero piuttosto che a un altro è una scelta politica, e una volta presa determina le alleanze in modo ben più concreto e stabile che non i trattati di amicizia e le velletarie iniziative del Servizio europeo di azione estera. Senza il controllo di questa leva è impensabile che l’Ue possa dotarsi di una politica estera coerente. Che succederebbe alla diplomazia degli Stati Uniti se Washington non potesse condizionare le esportazioni militari alle alleanze politiche?

Uno degli aspetti che determinano il successo o il fallimento dei processi di nation building, quale dovrebbe essere l’integrazione europea, è la convergenza dei gruppi d’interesse fondamentali che operano nelle entità costituenti. L’industria bellica è uno di questi. Un altro è l’industria energetica. In questo settore il differente orientamento delle aziende dei paesi chiave è responsabile della contraddittoria e fallimentare politica europea nei confronti della Russia e del Medio Oriente.

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Eppure il dibattito pubblico europeo continua accuratamente a evitare questi argomenti. L’integrazione europea avanza in campi in cui tutti sono d’accordo anche perché hanno scarse ricadute pratiche, come la tutela dei diritti umani, o in quelli su cui i governi non vogliono mettere la faccia, come l’imposizione della disciplina di bilancio. Ma i “giochi da grandi” continuano a svolgersi nelle capitali.

Secondo alcuni il modello europeo può ancora contare sul “soft power”, l’insieme di forze di attrazione culturale che dovrebbe compensare in politica internazionale la perdita di “hard power”. L’attribuzione del Nobel per la pace all’Ue non potrà che confermare questa impressione nel breve periodo. Ma il fascino non va d'accordo con la debolezza e la divisione, come ha dimostrato l’evoluzione della “primavera araba” di fronte alla reazione europea e la paralisi di Bruxelles davanti alla crisi in Siria, dove non ha neanche tentato di svolgere un ruolo di mediazione pur marginale. In queste condizioni, non si vede cosa potrà fare l'Europa per meritare un altro Nobel negli anni a venire.

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