Ah, che bella cosa Google! Senza il più famoso motore di ricerca internet avrebbe probabilmente un aspetto molto diverso, e Presseurop, che utilizza le sue applicazioni online, sarebbe molto più difficile da gestire. Grazie alla sua capacità di innovare e imparare dai propri errori, il gigante di Mountain View è diventato in meno di quindici anni un elemento irrinunciabile per la maggior parte degli internauti.

I servizi di Google - finanziati al 96 per cento dalla pubblicità, di cui l'azienda controlla più del 44 per cento del mercato mondiale sul web - sono in gran parte gratuiti. Per mantenere il suo approccio “free” - una delle principali chiavi del suo successo - Google inserisce nelle sue pagine annunci pubblicitari più o meno discreti, che col tempo sono diventati sempre più mirati: ogni volta che fate una ricerca, controllate una mappa, condividete qualcosa su un social network, segnalate la vostra posizione con lo smartphone, scambiate mail o guardate un video su YouTube, aggiungete un tassello al mosaico che compone il vostro profilo virtuale conservato da Google. E così, grazie all’immensa mole di dati raccolti, Google è in grado di proporvi i risultati della ricerca - e gli annunci pubblicitari - che presume essere più adatti a voi. Il motore di ricerca è talmente sicuro del fatto suo da escludere i risultati che considera meno rilevanti, e per questo motivo nel 2008 l'esperto Nicholas Carr ha addirittura accusato Google di istupidire i suoi utenti.

Un'intrusione così massiccia nella vita privata di circa 350 milioni di internauti non può naturalmente avere luogo senza il consenso degli utenti. Fino allo scorso febbraio ognuno degli oltre 70 servizi di Google aveva la sua peculiare politica di privacy, che doveva essere accettata singolarmente dagli utenti. Ora invece, per semplificare il processo, Google ha deciso di creare un’unica politica per la privacy e ha annunciato che incrocerà tutti i dati personali raccolti dai vari servizi. In questo modo l’utente già iscritto a un servizio non dovrà più leggere le condizioni di utilizzo a ogni nuovo abbonamento, e Google potrà affinare ulteriormente il suo profilo.

Un’operazione che conviene a tutti? Non proprio. Le autorità per la protezione della privacy degli stati dell’Ue, riunite nel Gruppo di lavoro articolo 29, hanno sottolineato che la nuova politica di Google è in conflitto con la direttiva europea sulla protezione dei dati personali, e dunque hanno chiesto all'azienda di rinviare l’applicazione delle nuove regole - ottenendo un rifiuto - e hanno incaricato la Commissione informatica francese per le libertà (Cnil) di indagare. Nel suo rapporto pubblicato il 16 ottobre, la Cnil chiede a Google di informare meglio gli utenti sull’utilizzo dei dati raccolti (soprattutto in termini di durata della conservazione e di combinazione tra i diversi dati) e di permettere agli internauti di non concedere l’autorizzazione.

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Larry Page, amministratore delegato di Google, ha risposto che la nuova politica non è contraria alle leggi europee ed è essenziale per lo sviluppo di nuovi prodotti. Se Page non accetterà le richieste dell’Europa rischia una multa massima di 150mila euro per ciascuno degli stati dell’Ue. Una bazzecola, se confrontati con i 7,18 miliardi di euro di utili registrati dall'azienda nel 2011.

In poche parole, il braccio di ferro tra Bruxelles e Google (tra l’altro al centro di un’indagine della Commissione europea per abuso di posizione dominante) non è ancora finito. E ci ricorda, se mai le avessimo dimenticate, due caratteristiche fondamentali della rete: la prima è che niente è davvero gratuito, la seconda è che gli utenti hanno un controllo molto relativo - se non nullo - sui loro dati personali una volta immessi online. È per questo che lentamente si sta costruendo, in modo più o meno consensuale, una “legge di internet”. Imbrigliare il web, come fanno alcuni paesi non proprio democratici, è un errore. Ma lasciare che le aziende gestiscano tutto da sole esporrebbe i più deboli - ovvero i singoli consumatori - a tentazioni abilmente preparate dai giganti della rete. E poco importa se il loro slogan è “Don’t be evil”.

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