Ragioni per sperare

Pubblicato il 9 Maggio 2013 alle 09:21

Oggi, nove maggio, è il giorno della festa dell’Europa e l’anniversario della dichiarazione Schuman, considerata l’atto fondativo dell’Unione. Allo stato attuale, abbiamo ancora motivi per rallegrarci? Non molti, dirà qualcuno.

In effetti l’Europa attraversa un momento disastroso: colpita dalla peggiore crisi economica e istituzionale del dopoguerra; divisa tra un nord virtuoso e ormai poco incline alla solidarietà e un sud che arranca; bloccata nella sua integrazione dai veti incrociati degli stati membri gelosi della loro sovranità; in bilico tra la tendenza al ripiego di alcuni e la voglia di scontro di altri; vittima della disaffezione dei suoi cittadini. In poche parole, sottolineano i più ferventi critici del progetto europeo, il crollo è soltanto questione di tempo. Eppure ci sono ancora ragioni per credere che l’Europa abbia toccato il fondo e ormai possa soltanto risollevarsi. I segnali sono deboli, anche se c’è bisogno di molta attenzione e di una certa dose di ottimismo per distinguerli.

L’Unione bancaria, indispensabile per evitare un’altra crisi del debito sovrano, appare più vicina che mai. Il 7 maggio la Germania l’ha definita un “progetto prioritario”, manifestando la speranza che sia adottata “rapidamente”. L’euro, che davamo per spacciato sei mesi fa, è in ripresa, ed è evidente che nessuno in Europa spera più nella sua dissoluzione, a cominciare da Berlino. Gli stati dell’eurozona sembrano aver capito che non possono condividere la stessa moneta senza coordinare la loro politica economica.

Per quanto riguarda il rilancio, Berlino (sempre Berlino) sembra aver preso coscienza che non conviene avere partner diligenti ma dissanguati, e comincia ad ammorbidire la sua posizione a proposito delle politiche di rigore, preceduta da Bruxelles. Le pressioni di Parigi, Madrid e del nuovo governo italiano hanno senz’altro avuto un ruolo importante in questo processo. Non siamo ancora usciti dal tunnel, ma cominciamo a intravede una luce davanti a noi. E non è quella dei fari di un treno.

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