Intervista Alina Mungiu-Pippidi e la corruzione

“Crisi e austerity hanno reso l’opinione pubblica meno tollerante”

Da una parte i Panama papers, dall’altra gli scandali per corruzione in Spagna, Brasile, Sudafrica, Romania e pressoché ovunque. Sembra che il mondo stia diventando più corrotto, ma l’opinione pubblica è sempre più consapevole e sempre meno disposta a perdonare, sostiene l’esperta internazionale.

Pubblicato il 18 Aprile 2016 alle 14:16

Alina Mungiu-Pippidi, esperta internazionale di integrità pubblica e corruzione e autrice per la presidenza olandese dell’Ue un rapporto speciale sull’integrità e la fiducia nell’Unione europea ha risposto alle nostre domande sulla tendenza riguardo al modo in cui la corruzione è percepita in Europa e all’estero e sulle conseguenze della pubblicazione dei Panama papers, un insieme di documenti confidenziali su oltre 214mila società offshore gestite dalla società di servizi finanziari panamense Mossack Fonseca.

Sembra che la corruzione di questi tempi sia sulla bocca di tutti. Secondo lei è un fenomeno in crescita?

È in crescita la trasparenza, e ciò porta a mettere in grande risalto la corruzione preesistente. Ma la tolleranza è in calo, a causa della crisi e dell’austerity. Quando c’era benessere, molte persone pensavano che non fosse poi così grave se i politici si prendevano indebitamente una modesta percentuale della ricchezza pubblica. Adesso che le cose non stanno più così, gli elettori del ceto medio si dimostrano molto meno tolleranti nei confronti della corruzione e, tenuto conto che nei paesi in via di sviluppo sono più numerosi che mai, vediamo che non soltanto nella ricca Islanda, ma anche in Brasile e in India la richiesta di buona governance è in sensibile aumento.

I Panama papers secondo lei hanno a che vedere con la corruzione?

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Sì, certamente. La corruzione non necessariamente è illegale. Come sostengo nel mio rapporto per la presidenza olandese dell’Ue, il modo col quale gli europei percepiscono in che misura i rispettivi governi sanno gestire il fenomeno della corruzione è la seconda causa più importante di perdita di fiducia nell’Ue, subito dopo la crescita economica. Due terzi degli europei sono preoccupati per la corruzione messa in luce dagli Eurobarometri, quasi la stessa percentuale di quelli evidenziati da campioni a livello globale dal Global Corruption Barometer.

Poiché a soltanto meno del 10 per cento degli europei è mai stata chiesta una tangente (comprese quelle per medici scarsamente retribuiti in Europa dell’est, che potrebbero essere equiparate a forme dirette di pagamento), ne consegue che l’opinione pubblica non limita il fenomeno corruttivo alle tangenti, ma lo considera una forma di privilegio illecito per funzionari e chiunque riveste una carica pubblica. È proprio questo che i Panama papers ) ci rivelano: un trattamento iniquo a causa del quale la gente comune paga le tasse mentre chi ricopre incarichi di governo o in ogni caso autorevoli moltiplica al massimo i suoi guadagni. A questo proposito, ciò che Thomas Piketty omette di considerare nel suo fondamentale lavoro sulla disuguaglianza nel quale non usa mai la parola “corruzione”, è che negli ultimi decenni il capitale del potere si è tradotto moltissimo in soldi e asset.

Da che cosa lo si deduce?

Beh, è sufficiente prendere l’elenco redatto dalla rivista Forbes dei più importanti top manager suddivisi per paese e calcolare quanti di loro ammassino fortune grazie a qualche rapporto privilegiato con le autorità – appalti, sgravi fiscali o qualsiasi altra forma di beneficio. In un contesto di capitalismo sano, se ne trovano pochissimi in cima all’elenco (occupato per esempio dai venditori al dettaglio), mentre nei paesi in via di sviluppo i primi 50 nomi dell’elenco sono oligarchi che approfittano di favoritismi del governo, e di fatto questo è un elenco del peggiore capitalismo clientelare. Anche nei paesi sviluppati si troveranno sempre cacciatori di rendita, ma le fondamenta della concorrenza sono più solide. Eppure, ciò che è accaduto in Siemens e in Volkswagen, e così pure a diversi leader politici in Francia, nel Regno Unito o in Spagna negli ultimi anni, avrebbe dovuto farci aprire gli occhi. La corruzione fa parte della natura umana. Soltanto alcuni paesi sviluppati sono riusciti a erigere difese migliori perché le loro società sono più consolidate e più abili a controllare le élite politiche.

La distinzione tra paesi più o meno sviluppati ha ancora senso in un mondo globalizzato, nel quale sembra che proprio la corruzione sia la prima cosa a essere globalizzata?

Ahimè, è proprio così, perché se da una parte è vero che la corruzione si diffonde facilmente laddove non ci sono leggi in materia, dall’altra il contrario non è affatto vero. Per di più esportare la buona governance non serve, è un fallimento che non ha avuto successo neppure una volta. I pochissimi paesi che negli ultimi trent’anni hanno compiuto passi avanti in direzione di una buona governance – non più di dieci, dodici al massimo – lo hanno fatto per evoluzione propria, non perché avrebbero importato dall’esterno buone prassi di qualche tipo. Gli ostacoli più grossi alla corruzione pertanto continuano a essere i vincoli della società nazionale, e questo spiega per quale motivo il primo ministro islandese abbia dovuto rassegnare le dimissioni, mentre il sudafricano Jacob Zuma o la brasiliana Dilma Rouseff siano ancora in carica malgrado evidenti prove della loro colpevolezza. Spero che prima o poi si arrivi a un punto di svolta anche in quei paesi. Ma per arrivarci serviranno maggiore attivismo e più tempo.

Questo implica che la comunità internazionale in genere, e l’Ue in particolare, non possono fare granché?

Possono fare molto, ma dovrebbero essere considerati facilitatori, non attori protagonisti. In primo luogo dovrebbero vigilare meglio sui loro fondi per l’assistenza e rendere esemplari la trasparenza e l’intelligenza con le quali quei fondi sono spesi. Grecia e Sicilia sono notori esempi di investimenti a lungo termine dell’Ue in regioni-potentato, non comunità, come dice alquanto giustamente l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis. In secondo luogo, i paesi avanzati farebbero bene, come per altro hanno già iniziato a fare, a espandere la loro giurisdizione alle loro stesse imprese che operano all’estero, e penalizzare coloro che si servono delle banche occidentali per trasferire tangenti, come nel caso della FIFA. Terzo, digitalizzare e rendere trasparenti le informazioni nei paesi sviluppati e all’estero – dai dati riguardanti i fondi per l’assistenza alle forniture – servirebbe sia a creare un esempio da seguire sia a scoraggiare la corruzione in modo diretto. La Germania è di parecchie posizioni più indietro rispetto all’Estonia in fatto di trasparenza sugli appalti: non rende note le sovvenzioni USAID e nemmeno quelle per la buona governance sono di dominio pubblico. In alcuni paesi, come Grecia o Romania, anche i fondi dell’Ue non sono del tutto trasparenti. Infine, dobbiamo capire una volta per tutte che, a meno di dotarci di difese a livello interno grazie a coalizioni di governo che vogliono il cambiamento, e mentre recupereremo a fatica e a caro prezzo i soldi delle appropriazioni indebite commesse da qualche capo di stato corrotto, il leader che lo sostituirà o il partito politico che sarà eletto dopo di lui commetterà lo stesso reato al cubo. Dobbiamo cambiare le regole del gioco nella finanza pubblica, dobbiamo inaugurare una trasparenza assoluta per vigilare su coloro che puntano a vivere di rendita. Oltre alle località offshore che dovremmo inserire in una lista nera, dobbiamo vigilare sulle molteplici “Isole Vergini” che la maggior parte dei paesi ha all’interno dei suoi stessi confini, e applicare normative diverse per i singoli individui e le aziende. Soltanto la gente del posto potrà smantellarle, anche se noi potremo raccogliere e offrire loro le prove delle strategie migliori che funzionano meglio.

Sulla nuova pagina che lei ha lanciato in occasione della settimana dedicata dall’Ocse alla trasparenza vedo un esempio di questi consigli. Perché la gente dovrebbe leggerli?

In quelle pagine noi mettiamo a disposizione il frutto più pratico delle nostre ricerche: un indice assolutamente oggettivo e collaudato a livello statistico per misurare la capacità che un paese ha di tenere sotto controllo la corruzione e il quadro istituzionale dell’integrità pubblica con più precisione. Questo indice è formato da sei fattori, che vanno dall’empowerment digitale dei cittadini (e-cittadini) alla discrezionalità amministrativa che si manifesta con la burocrazia. Ogni paese può controllare a che livello si colloca globalmente rispetto agli altri sotto tutti i punti di vista, e i governi e le società civili possono a partire da questi dati avviare e modulare le loro strategie, se vogliono davvero cambiare le cose.

Cet article est publié en partenariat avec ANTICORRP

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