Più di 250 milioni di cittadini europei sono in isolamento domiciliare coatto per contribuire a frenare la diffusione del virus Covid-19. Eppure, mentre svedesi, tedeschi e bulgari passeggiano ancora più o meno liberamente nelle loro città, italiani, spagnoli e francesi non possono lasciare le loro case. I bambini svedesi vanno ancora a scuola, mentre la maggior parte dei loro coetanei europei non ci va. I negozi sono aperti nei Paesi Bassi e in Danimarca, ma chiusi altrove.
Come possiamo dare un senso a queste realtà conflittuali quando i cittadini europei sono tutti ugualmente colpiti dal virus? Come possiamo raggiungere lo stesso obiettivo: il contenimento della malattia in un continente condiviso, apparentemente senza frontiere, con un tale spettro di politiche diverse?
Per la stragrande maggioranza dei cittadini europei questa emergenza è quanto di più simile possibile all’esperienza di una guerra. E mentre moltissimi di loro guardano all’Ue per ottenere protezione e soluzioni comuni, Bruxelles sembra impotente.
Ursula von der Leyen, la presidente della commissione europea, ha rivolto un rimprovero ai governi membri per non essere riusciti a mettersi d’accordo nell’ultimo vertice. Troppi, ha detto, hanno egoisticamente "guardato a sé stessi", limitando le esportazioni di forniture mediche verso altri paesi dell’Ue e chiudendo le frontiere.
La stessa Ue non può fare molto in caso di una pandemia. Non può chiudere le scuole, sospendere le partite di calcio o chiudere le città europee. Non può nemmeno chiudere le frontiere per frenare la diffusione del virus. Solo i suoi governi membri possono farlo. E la chiusura delle frontiere è ciò che alcuni governi hanno fatto – contro il parere dell’Organizzazione mondiale della sanità – sospendendo per la prima volta la zona di libera circolazione delle persone di Schengen.
Quello che l’Ue può fare è mitigare l’impatto socioeconomico della pandemia, offrendo ai suoi stati membri una certa flessibilità rispetto alle regole in materia di deficit e aiuti di Stato. E infatti questo è ciò che ha fatto: oltre a un fondo di investimento di 37 miliardi di euro per contrastare gli effetti del Covid-19 sull’economia di tutto il continente, ha lanciato un’operazione di approvvigionamento congiunto che copre, respiratori, maschere e altre attrezzature mediche vitali in tutto il continente. I leader dell’Ue stanno anche creando un nuovo centro europeo permanente di gestione delle crisi.
Tuttavia, i governi dell’Ue potrebbero fare di più per rassicurare i loro 500 milioni di cittadini in un momento in mai come ora è apparso in modo lampante che condividono un destino comune.
Nonostante i limiti intrinseci dell’Unione, i 27 ministri della salute dell’Ue potrebbero decidere – su base volontaria – di mettere in comune i loro poteri sovrani in caso di emergenza. Potrebbero cominciare a coordinare – non necessariamente armonizzare – la raccolta dei dati (attualmente esistono tre fonti diverse, i test (non esiste un approccio unico né una banca dati centrale), così come il contenimento, la quarantena e il distanziamento sociale. Il vantaggio più evidente di un simile sforzo di coordinamento a livello europeo sarebbe quello di rendere improvvisamente significativi i confronti nazionali.
L’altro passo utile sarebbe quello di smettere di pensare solo in termini di stato unitario e pensare invece a livello regionale. Poiché l’epidemia di coronavirus si concentra in alcune regioni e le infezioni non si diffondono in modo uniforme sul territorio di ogni paese, le misure di contenimento sanitario non sarebbero più concepite secondo frontiere nazionali, ma regionali.
Questo funzionerebbe anche quando i confini regionali tagliano i confini nazionali, come l’intero territorio del Paese Basco, che attraversa il confine franco-spagnolo. Le misure elaborate a questo livello sarebbero intrinsecamente più adeguate alle circostanze locali, proporzionate agli obiettivi dichiarati e potenzialmente migliori nel preservare le libertà per le popolazioni interessate.
Un approccio regionale avrebbe anche il merito di favorire la cooperazione e la solidarietà sanitaria su tutto il territorio dell’Unione. Sta già accadendo su piccola scala: gli ospedali del Baden-Württemberg, in Germania, stanno curando pazienti affetti da coronavirus gravemente malati della vicina regione dell’Alsazia, in Francia, che sta lottando per far fronte alla situazione. E un piccolo numero di pazienti Covid-19 di Bergamo sono stati trasferiti a Lipsia dopo che le autorità della Sassonia sono intervenute.
Data la diversa tempistica della diffusione del virus un approccio transfrontaliero al trattamento ospedaliero potrebbe rappresentare un cambiamento radicale. Una risposta coordinata a livello europeo contribuirebbe a colmare il divario tra la politica della pandemia a livello nazionale e le dure realtà sanitarie sul campo.
Ma c’è di più.
La mancanza di una risposta coerente alla pandemia a livello europeo sta mettendo a repentaglio uno dei risultati più straordinari della cooperazione europea: l’area Schengen ha permesso alle persone di circolare liberamente senza passaporto dalla metà degli anni Novanta.
Ma i controlli alle frontiere sono stati ora ripristinati da 12 dei 26 paesi dell’area. Anche se questi controlli non offrono un grande vantaggio in termini sanitari – ma piuttosto rallentano la libera circolazione dei lavoratori e delle forniture chiave che potrebbero essere necessarie con urgenza in questa emergenza – sono inevitabili quando gli stati membri non hanno un piano d’azione coordinato di contenimento.
Una risposta coordinata a livello europeo renderebbe superflue queste restrizioni alle frontiere. Inoltre, le misure di contenimento avrebbero un impatto maggiore se fossero il risultato dello scambio di consulenze di esperti, di prospettive condivise e di un dibattito pubblico molto più ampio di quello che avviene attualmente nei singoli stati.
La maggior parte delle misure attuate precipitosamente a livello nazionale sono eccezionalmente restrittive delle libertà individuali e collettive. Dato che i poteri di emergenza sono usati ogni giorno per governare la pandemia di coronavirus in tutto il continente, c’è un rischio reale che il loro esercizio possa essere usato per erodere non solo il diritto di libera circolazione, ma anche i diritti civili e, in ultima analisi, la democrazia.
In quanto garante ultimo dello stato di diritto, l’Ue dovrebbe non solo sorvegliare ma anche impedire che queste numerose misure repressive violino i diritti civili dei cittadini, o, come nel caso dell’Ungheria, indebolire le istituzioni, con la scusa della lotta contro il virus.
In definitiva, la gestione europea di Covid-19 ha rivelato una scomoda verità. Considerato l’alto livello di interdipendenza socio-economica in Europa, le soluzioni tra stati nazionali possono fare più male che bene, offrendo un’illusione di sicurezza e protezione.
Non deve essere per forza così. Dato che ogni approccio nazionale contro Covid-19 comporta diversi compromessi, e che questi hanno un impatto su altri paesi, esiste un argomento morale – anche se non ancora legale – che spinge i nostri leader nazionali a lavorare insieme all’interno dell’Unione europea per coordinare i loro interventi di salute pubblica con urgenza e nel rispetto della legge.
Questa continua emergenza sanitaria è una rara opportunità per dimostrare che l’Ue non solo conta, ma può anche proteggerci, sia dal virus che dai nostri rispettivi governi.