Attualità Migranti sulla rotta dei Balcani 4/5
Il campo profughi di Röszke, al confine con la Serbia, settembre 2015.

Nemici e amici

Nella quarta puntata del reportage realizzato insieme a Móni Bense lungo la frontiera tra l’Ungheria e la Serbia, André Cunha incontra il leader del partito xenofobo Jobbik di Szeged e un gruppo di rifugiati in un campo improvvisato sul lato serbo.

Pubblicato il 2 Ottobre 2015 alle 07:29
Peter Tkac  | Il campo profughi di Röszke, al confine con la Serbia, settembre 2015.

“Noi siamo l’altro dell’altro”

Ho questa piccola frase di José Saramago come epigrafe di uno dei quaderni di questo viaggio, parole che s’intrecciano sui sentieri di carta a quelle di un’altra scrittrice di lingua portoghese, Alexandra Lucas Coelho, anche lei giornalista:“non esiste un noi e un loro, gli altri siamo noi. Noi siamo in mezzo a noi”. In tutti i sensi. Noi siamo quei rifugiati che non sapevano nemmeno dove si trovavano quando la polizia li ha lasciati alla stazione dei treni di Szeged. “Dove ci troviamo?”. Noi siamo Robert sul Triplex Confinium dove è iniziato questo viaggio, ma siamo anche Orbán, siamo l’agricoltore che vocifera contro il rifugiato che gli ha rubato i pomodori e siamo quello stesso rifugiato, siamo le padrone della koscma e i loro commensali in quelle taverne della Terra Bassa ungherese dove il mondo si muove in slow motion, siamo József e Rigó tra le pecore, siamo Sharbat, Márk, Rita, Zoltán, Mohammed, Balázs, siamo poi quei ferrovieri che volevano mettere la piccola Fatma e il suo fratellino Ahmed a dormire all’aperto e siamo anche Rafiq più tardi quando arriveremo a Subotica, al nord della Serbia, ma ora, ancora a Szeged, siamo Péter. È sempre urgente cercare di ascoltare senza frontiere tutti gli “altri”, per capire meglio questo momento, o per sentirci ancora più persi in questa “storia del presente” in cui c’è un muro in più in mezzo a noi.
Mancava lui.

Jobbik

Péter Tóth ha simpaticamente detto subito di sì alla prima, aveva solo bisogno di chiedere l’autorizzazione al capo dell’ufficio stampa del suo partito. A 32 anni, è il leader dello Jobbik a Szeged, forza politica considerata di estrema destra che a sua volta chiama una parte degli altri partiti “estremisti-liberali”. Non sempre gli estremi si attraggono.

Alle ultime elezioni locali dell’ottobre 2014, ha ottenuto il 3% dei voti mentre lo Jobbik aveva avuto il 20% alle legislative dell’anno scorso. Sulla cartina politica monocromatica dell’Ungheria, Szeged è una delle poche grandi città del Paese che non è fedele al Fidesz del primo ministro Viktor Orbán. Da Budapest è arrivata rapidamente l’autorizzazione per l’intervista e Péter ci ha suggerito il bar-ristoranteSzeged Étterem in Széchenyi tér, una bella piazza-giardino, in cui per caso io e Móni avevamo cenato due giorni prima. Ma c’era una coincidenza geografica più pratica: Péter era invitato a un matrimonio alle tre del pomeriggio di quel sabato, proprio lì accanto, precisamente nel comune di cui aveva perso le elezioni per uno scarto infinito, meno di un anno fa.
Tutti bevono caffè, io sorseggio una birretta, ancora preso dal ritmo delle koscma dei giorni precedenti. Alla prima risposta, subito una sorpresa: il vocabolario di Péter contiene la parola “rifugiato”. Mentre il leader della sua formazione politica Gábor Vona, così come Orbán e quelli del suo partito, parlano sempre di “immigrati illegali”, lui sceglie quasi sempre di dire “rifugiati”, forse perché li vede lì faccia a faccia, appena passata la frontiera, e non solo attraverso il filtro della televisione statale o di qualche organo di stampa pro-governativo che, dicono i critici, semi-censurano alcune immagini: ad esempio, le scene con i bambini perché potrebbero suscitare nel pubblico sentimenti di empatia e comprensione. Un’altra sorpresa, o forse non tanto, dice “muro” e “recinto” come sinonimi, riconoscendo implicitamente, interpreto io, che la differenza fisica non è, in questo caso, una differenza simbolica. Sono dettagli che l’orecchio ha registrato. Ma sentiamo i suoi argomenti:

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Primo. Toth concorda con il progetto della barriera frontaliera “ma solo in caso sia possibile rafforzare le risorse umane. Per questo una delle proposte dello Jobbik è la necessità di formare una forza indipendente per la frontiera, in modo da implementare un controllo effettivo sui rifugiati che entrano”. “Controllo” è la parola che ripeterà in tutte le risposte che ci dà. “Se il recinto fosse già stato costruito, l’amministrazione effettuerebbe oggi un controllo ancora più efficace dei rifugiati che entrano”. [Non si tratta, perlomeno non ancora, di una forza indipendente come ha chiesto lo Jobbik, ma a fine agosto il governo ungherese ha annunciato l’invio di più di duemila poliziotti alla zona di frontiera e ha chiesto al parlamento, in cui il Fidesz ha la maggioranza, l’autorizzazione per coinvolgere l’esercito nella pattuglia frontaliera, cosa che è concretizzata già all’inizio di settembre].

Secondo. “I rifugiati sono in transito perché le loro principali mete sono la Germania, l’Olanda e l’Inghilterra”. Più dell’Olanda, la Svezia fa parte del triangolo preferito per chi cerca una seconda vita. Péter non ha chiamato i rifugiati “delinquenti” in nessun passaggio, né mai ha fatto riferimento alla loro eventuale religione, come sono soliti fare molti sostenitori del suo partito, e nemmeno li ha accusati di voler rubare il lavoro agli ungheresi o di essere dei possibili terroristi – due argomenti della retorica pro-muro di Orbán. Loro sono in transito.

Ossessione malattie

Terzo, ed è l’argomento che, per tutta la mezz’ora di conversazione, Péter Toth difende con più insistenza: l’esame medico. “Io non mi oppongo ai rifugiati, ma è necessario controllarli. Vi chiedo, siete già passati dalle rive del Tisza? Lasciano lì molti capi di vestiario. Attraversano vari paesi e vengono da zone di guerra e da un altro clima, quindi possono portare malattie. Per questo è fondamentale che queste persone vengano identificate e sottoposte a un esame medico. Per esempio, possiamo parlare del caso della epatite A, il cui tasso di vaccinazione in Siria, tra il 2012 e oggi, si è abbassato dal 91% al 68%, il che significa che ci sono bambini che non sono vaccinati da tre o quattro anni. Questo può solo essere filtrato con un controllo”. Il leader dello Jobbik a Szeged sottolinea proprio che “questo esame non è soltanto la questione più importante per noi in Ungheria, ma per tutta l’Europa”. Toth ci fa notare anche che molte di queste persone “avranno già fatto quest’esame medico in paesi precedentemente attraversati, ma loro stessi distruggono i documenti. Quindi diventa impossibile sapere se, di fatto, sono già stati visitati. Il governo non ha divulgato nessuna informazione sul tipo di malattie speciali rilevate nell’ultima metà dell’anno, ma probabilmente l’Ospedale di Szent László avrà dei dati a riguardo. Io non mi stupirei se fossero state già individuate delle malattie tropicali”. (Caro Péter, permettimi solo un “a parte”, due mesi dopo il nostro incontro: fino ad oggi, non si conosce un solo caso di malattie gravi e pare inverosimile che Orbán nasconda un’informazione che sarebbe così vantaggiosa per la sua strategia propagandistica.)

Quarto e penultimo argomento, la risposta allo specchio critico del passato: “Non concordo con i confronti con decenni passati. Decisioni come questa si prendono quando un paese vuole difendere le proprie frontiere. Un paese può difendere la proprie frontiere come meglio crede. Per esempio, succede anche in Cisgiordania, dove Israele ha costruito un muro. Parlare di ghettizzazione dell’Ungheria [come ha fatto, per esempio, Robert Molnár, sindaco di Kübhekáza, cittadina ungherese vicino alla tripla frontiera con la Serbia e la Romania] è un’interpretazione ‘estremista-liberale’ di quello che sta succedendo”. “E mio suocero”, che era seduto al suo fianco, “sta aggiungendo che questa non è una cosa così fuori dal comune, perché anche sulla frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico c’è un muro”. E di nuovo, la parola scelta, è stata muro, anche se, come nel progetto del governo ungherese, si tratta fisicamente di un recinto, così come la barriera completata nel 2012 tra la Grecia e la Turchia, accanto al fiume Evros, o l'analoga struttura tra la Bulgaria e la Turchia, che deve essere ancora rafforzata. Ma la voce dello Jobbik a Szeged si è dimenticato o non ha voluto dare questi “esempi” europei, anteriori al muro di Orbán, il sessantacinquesimo nel mondo di oggi.

Con la coda dell’occhio, vedo che alcuni degli invitati al matrimonio stanno già raggruppandosi alla porta del comune, accanto ai tavolini fuori dello Szeged Étterem. Rassicuriamo Péter: siamo quasi alla fine. Simpatico, ci dice che abbiamo ancora un po’ di tempo. Sono di qualche anno più vecchio di lui, ma non tanti da considerarci di generazioni diverse. Cerco di continuare il filo della conversazione sui territori del passato, con un angolo più personale. Gli dico che mi ricordo dei miei genitori esaltati, di fronte alla televisione, quando cadeva il muro a Berlino il 9 novembre del 1989 e, cosa che non nuoce ripetere, che la cortina di ferro aveva cominciato a cadere mesi prima, in quell’estate, precisamente alla frontiera tra l’Ungheria e l’Austria. Avevi sei anni, ti ricordi Péter?
“Mi ricordo del tempo della cortina di ferro perché mia nonna viveva e vive ancora a Szentgotthárd, una cittadina vicino al muro. Ma in quel periodo era davvero proibito passare la frontiera. Non è questo il caso adesso: le persone possono passare la frontiera, ma solo in modo controllato. Noi non abbiamo niente contro i rifugiati, né io, né gli abitanti di Szeged. Ma bisogna sottolineare l’importanza della salute pubblica. Se gli abitanti di Szeged sono arrabbiati con qualcuno, è con gli zingari di qui che raccolgono i vestiti dei rifugiati e li vendono al mercato. Il capo della squadra di polizia ha già cominciato a controllare gli zingari, ma anche i taxisti che per molti soldi, a volte anche mille euro a testa, portano i rifugiati a Budapest o a Vienna. È nostra responsabilità mettere ordine in questa situazione interna dei trafficanti e dei lomizós [parola ungherese per chi vive della compravendita di qualsiasi tipo di usato, a volte trovato per strada o nella spazzatura]. Gli abitanti di Szeged sono più arrabbiati con questi zingari che con i rifugiati. Credo che con i rifugiati siamo solidali. Ma il loro arrivo e transito deve avvenire in modo controllato”.

Cigányozik

È solo in chiusura di conversazione, all’ultimo minuto, mentre stavamo ancora registrando, che il discorso ha iniziato a zingarare un po’, come per lasciarci la certezza che stavamo proprio di fronte a un membro dello Jobbik. Confesso a Moni Bense, mia compagna di viaggio e ponte linguistico tra me e Péter, che mi aspettavo un discorso d'altro tipo. Forse era un mio stereotipo, ma probabilmente mi aspettavo di sentire argomenti copiati carta carbone da quelli di Vona, il capo del partito a livello nazionale che, alle urne, ha molto più successo di quello del collega di Szeged.
Per Vona, la retorica anti-rifugiati elimina il concetto stesso di rifugiati. Gábor Vona sostiene, come Viktor Orbán – forse sembrano sempre di più uno l’alter-ego ideologico dell’altro, anche se sono avversari politici – che un “migrante illegale” sia un “criminale” e che, per questo, debba andare in prigione, invece di un campo di accoglienza. Oltretutto, Vona chiede la sospensione immediata di ogni legislazione europea riguardante i rifugiati e richiedenti asilo. Da questo punto di vista, prospettiva che spero di approfondire nei futuri ritorni in Ungheria, scrivo sul mio quaderno la didascalia che non mi esce dalla testa per descrivere la conversazione che si era appena conclusa sui tavolini dello Szeged Étterem: Péter Toth – candidato a elemento meno radicale dello Jobbik. Questo “altro” di fronte a noi, che fa parte di questo “noi” che ci sta accadendo.
Nel paragrafo precedente, è apparsa una parola nuova sul dizionario di questo viaggio. Zingarare – cigányozik – è un verbo usato nel linguaggio parlato ungherese quando qualcuno attacca la minoranza etnica rom, che era stata, fino al migrant boom, il principale bersaglio del discorso anti-altro. È molto tempo che la retorica di un “noi” ungherese ed esclusivista costituisce la principale torre di controllo della scacchiera politica del paese. E se questo muro-recinto è Orbán che attacca lo Jobbik con entrambi i cavalli allo stesso tempo, mossa pericolosa che alcuni chiamano proprio “la Jobbikizzazione del Fidesz”, i rifugiati sono pedoni che entrano in gioco quando dovevano essere soltanto di passaggio.
Mi sono fatto sedurre dalla sempre facile metafora degli scacchi quando, proprio ieri sera, osservavo una partita tra veterani, durante un rapido passaggio ai bagni termali di Szeged. Al centro della piscina principale, la tavola-scacchiera e le due sedie, tutto in pietra, occupano il posto nobile. Un uomo su ogni lato, tra loro il silenzio, la partita scorre lenta. Di fianco, le conversazioni fluttuano, sottovoce. Non le capisco, ma sembrano esser leggere come i vapori che ci circondano, in un ambiente del tutto fuori dal copione di questo viaggio pieno di gente e di frasi, e tra pochi paesaggi attraversati dal filo spinato. In tante volte che sono venuto in Ungheria, non ho mai provato a giocare a scacchi in un bagno termale, non è mai capitato. Come saranno quelle pedine? Galleggiano o vanno a fondo se cadono da quel tavolo-isola in mezzo alla piscina? O una cosa o l’altra, penso: o galleggiano tutte, o vanno tutte a fondo, non ci saranno pedine di materiali diversi. Se i pedoni vanno a fondo, ci vanno anche i re, le regine e gli alfieri. Anche più in fretta, concludo, perché sono pezzi più grandi, più pesanti. Europa attenzione, scacco.
Sul tavolo dello Szeged Étterem, le tovaglie di carta hanno varie foto del bar-ristorante. Sull’immagine di una delle sale, mi sembra di vedere la vecchia cartina della Grande Ungheria, ed è la stessa cosa. In quel disegno che ha più di un secolo, la frontiera su cui oggi sta crescendo il muro-recinto di Orbán non era ancora una frontiera, era Ungheria. Il Tisza ci stava tutto qui, la sorgente e la foce stavano dentro a queste curve topografiche. Oggi il fiume nasce in Ucraina e sfocia in Serbia, nel suo fratello più grande, il Danubio, con cui abbiamo appuntamento alla fine del viaggio. Di ritorno sulla strada, chiedo lo smartphone in prestito a João Henriques, professore di letteratura, traduttore e poeta, un amico di queste parti che sarà il nostro prezioso autista per i prossimi quattordici chilometri – la distanza che separa Szeged e Röszke. Lui guida, io controllo su Google Maps (versione 2015, prima del muro) e vedo che questo paesino della frontiera ha delle case, come nel paesino di Térvar, con il cortile che bacia la Serbia. João ama la Terra Bassa, ha vissuto vari anni qui, un po’ anche in Vojvodina, torna ogni volta che può alla pace della pianura. “Che bello”, dice e ripete ogni volta che attraversiamo una moltitudine di girasoli in fiore. “È l’ultima volta, João, che vedi questo paesaggio così, vergine, senza filo spinato”. Gli si strapperà il cuore. Magari gli strapperà anche una poesia.
Con questa posizione privilegiata, non sorprende che Röszke si sia trasformata in una delle principali porte d’entrata scelte dai trafficanti, accanto alle vicine Mórahalom e Ásotthalom. Le autorità hanno stabilito qui, sul ciglio dell’autostrada che lega Belgrado a Budapest, un campo di accoglienza e identificazione provvisorio di migranti e rifugiati, vicinissimo alla frontiera. Il giorno prima, la polizia aveva usato i lacrimogeni per smorzare la rivolta: “UN! UN! We want peace!” gridavano loro. Alcuni manifestanti, probabilmente, sono ancora nel campo quando arriviamo all’entrata. Si riesce a vedere oltre al recinto che ci sono letti montati nelle varie tende militari. Ci identifichiamo e chiediamo al poliziotto che sta di guardia se è possibile entrare e conversare con le persone che sono lì. “Nessuno può entrare, men che meno i giornalisti”.

Ungheria in miniatura

MiniHungary. Qui di sicuro l’accesso ai giornalisti è permesso; anzi è ben visto, per attirare più turisti. Vedo il cartello e mi dispiace non avere il tempo di fermarci. È già tardi e vorremmo arrivare prima di sera al campo profughi improvvisato di Subotica, in Serbia, ma la coincidenza di questa MiniUngheria – un parco che raccoglie le miniature dei principali monumenti e attrazioni turistiche di tutto il paese – spalancata qui, a Mórahalom, accanto alla strada da cui sono già passati migliaia di rifugiati, mi fa venire la curiosità di sapere se qualcuno di loro ha cercato di entrare per visitare il paese, riassunto qui in molto meno di un chilometro quadrato. Voglio credere che, accanto a tanti bambini ungheresi che vengono qui in gita (vedo foto su internet), Fatma e Ahmed, due bambini curdi con cui siamo stati ieri, potrebbero farsi nuovi amici e conoscere un po’ di più queste terre, oltre alle visite alla squadra di polizia o alla stazione dei treni di Szeged, nel cui cortile non li abbiamo quasi mai visti piangere, ma nemmeno giocare.
Quando torno a Mórahalom, mi riprometto: così come all’entrata del campo di Röszke, devo bussare alla porta, identificarmi, e devo chiedere ai responsabili di questo parco di miniature se qualcuna delle molte famiglie di rifugiati che sono passati di qui ha cercato di dare ai loro figli un secondo di distrazione in questa “piccola Ungheria” che ci fa venire in mente i pomeriggi circondati da castelli di lego. E penso anche che, anche se fosse un’enorme offesa per qualsiasi visitatore siriano, iracheno o afgano, forse il parco tematico potrebbe anticipare la pedagogia del futuro, osando includere fin da subito una miniatura del muro, l’ultimo “monumento” costruito nel paese, in modo che i bambini “che non sono ancora nati” possano crescere con la memoria di quanto accade.
Sulla cartina geografica, come un fiume di ferro che segue il corso sinuoso della storia, il nuovo muro sorgerà a Kübhekáza sul Triplex Confinium e, quando arriverà alla fine, sfocerà nelle acque di un braccio del Danubio, su un’altra biforcazione tripla, da qualche parte in un parco naturale diviso tra Ungheria, Serbia e Croazia. Ma cronologicamente, la creazione di un muro non inizia per forza su un estremo per finire sull’altro. I primi metri del muro-recinto di Orbán verranno costruiti in questo comune, in una zona in cui i campi agricoli si lasciano tagliare da densi boschi, su un territorio molto propizio per chi deve superare le frontiere di nascosto.
Non è ancora ufficiale oggi, quando passiamo da qui, ma lo sarà: il primo pilastro di metallo del cosiddetto “Recinto Temporaneo di Sicurezza della Frontiera” verrà collocato qui, il mattino del 13 luglio 2015. Qui, a quattro chilometri dalla città di Mórahalom, in cui vivono seimila persone. Il sindaco è Zoltán Nógradi, del Fidesz.
Prossima fermata, la vicina Àsotthalom. Quattromila persone. Sindaco: László Toroczkai, leader dell’HVIM, Movimento della Gioventù delle 64 contee, un piccolo partito radicale di estrema destra. 64 era il numero delle contee ungheresi prima del Trattato di Trianon, alla fine della Prima Guerra, lo stesso numero di contee di quella mappa della “Grande Ungheria”.
Prossima frase: “Loro sono strani, perché hanno la pelle più scura” ci dice, affaccendata, la padrona di una delle koscme locali, una signora sulla cinquantina. Non avevamo ancora sentito niente del genere. Passiamo da un minimercato del posto. La ragazza al banco è di un’altra generazione, poco più di vent’anni. “La situazione peggiora sempre di più perché loro sono sempre di più [fine giugno]. La gente è sempre più arrabbiata. Non c’è lavoro, le persone qui in Ungheria non hanno soldi, non hanno accesso ai servizi sanitari pubblici e loro arrivano e si prendono tutto gratis. Siamo stanchi di aspettare che tutto questo finisca”. Ma c’è stato qualche problema grave con gli “immigranti”, chiediamo. “No, non è successo niente. Ci sono state un paio di cose, ma non gravi. Ma il paese si sente già a disagio”. E sapete da dove vengono loro? “Io non lo so. Ma non mi piacciono perché hanno il volto scuro. E gli ultimi che sono arrivati hanno un volto ancora più scuro”.

Subotica

Strada. Kelebia. Ungheria. Frontiera. Serbia. Kelebija. Subotica. Fabbrica di mattoni abbandonata. Spazzatura e uomini. Faccia a faccia:
“Welcome!” - esclama il primo rifugiato che ci vede arrivare.
“Hello!” - un secondo si alza in piedi, va a chiamare il più anziano del gruppo, che arriva in un attimo attraverso i cespugli:
“Welcome!” Scusate, non abbiamo sedie, ma sedetevi, per favore – e chi era seduto in terra, si alza per farci posto. Ci danno la loro terra migliore, noi in cambio gli diamo acqua, biscotti, frutta secca, carta igienica, salviette, ciò che ci e venuto in mente di portare. Rimaniamo in piedi:
“E' stato il vostro governo a mandarci questo?”
“No, l’abbiamo portato noi.”
Thank you!
As-salamu alaykum!” - dice un altro, mettendo la mano sul cuore - “Inshallah” – ci ringrazia un altro, mano elevata al cielo, mentre da dietro un altro cespuglio sputano dal niente altre due rifugiati.
Hello, welcome!” - ci salutano.
“Tutto bene, per quanto possibile?” - chiediamo a loro.
We have to live, we have to dream” – risponde uno.
“Come ti chiami?” - mi chiede l'altro.
“André. E tu?”
“Rafiq, friend”.
Friend, yes” – sorrido in risposta.
“Rafiq significa proprio ‘amico’” – spiega meglio il suo compagno, in un inglese molto più raffinato di quello di Rafiq.
Women, women?” - interrompe Móni, mostrando una confezione di assorbenti.
Rafiq e due dei suoi compagni di viaggio ci portano verso un altro gruppo dove ci sono quattro donne, tutte con il velo, e una bambina a testa scoperta. I rifugiati si disperdono in questo enorme campo improvvisato in autogestione; a volte in piccoli gruppi, a volte in numero maggiore, quasi un centinaio, spesso intorno ad un falò, un paio di tende, dormono ovunque, dove capita.
Tutti insieme, rappresentano centinaia di clienti che i trafficanti, come le zanzare, attaccheranno al crepuscolo. Sulla strada che costeggia l'ingresso al campo, per pochi secondi, si ferma una BMW nuova di fabbrica, vetri scuri. Dall'interno esce un rifugiato che sale e prende subito la rampa per il campo, cercando di passare inosservato - probabilmente è uno degli “ambasciatori” dei trafficanti, arriva forse per negoziare, per vendere "biglietti" per l'altro lato del confine. La BMW riparte ad alta velocità.
Quando si arriva in cima alla rampa, accanto alle prime baracche della ex fabbrica di mattoni, c'è un pozzo di acqua non potabile. Questo luogo funziona come una sorta di checkpoint informale del campo. Siccome non abbiamo trovato nessuna famiglia con neonati, è lì lasciamo due sacchi con gli assorbenti. La "jungle" di Subotica, come l'hanno già chiamata in riferimento alla "jungle" di Calais, cresce come la più grande sala d'attesa prima del confine ungherese. E 'il luogo che più ci ha fatto male in tutto il viaggio, quello che ci ha lasciato di più l'amaro in bocca. A fianco del campo, dall'altro lato di una delle linee ferroviarie che passano ai suoi margini, c'è la discarica della città, vivaio di zanzare. Tra i resti del mondo in processo di disfacimento e le diverse centinaia di persone che qui aspettano per proseguire il viaggio, vedo un treno che passa direzione nord. Se potessero issarcisi sopra, qui, adesso, arriverebbero al volo alla loro destinazione dei sogni, per iniziare una vita nuova. E su questa linea, passava in altri tempi, ma in direzione sud, l'Orient Express.

Il cuore di Rafiq

Móni e Szabi, ora il terzo membro del team, sono andati a consegnare ancora acqua e ancora sacchetti di biscotti e frutta secca, che tirano fuori dalla macchina. Nel frattempo, raggiungo da solo uno dei gruppi più piccoli e gli offro un bottiglione da cinque litri. La bevono, fra tutti, in meno di un minuto. Dietro a quei cespugli, troverò un altro gruppo, forse il più denso in tutto il campo. Rapidamente mi ritrovo circondato da circa cinquanta, tra uomini e adolescenti:
“Devi essere tu a distribuire le cose che ci hai portato” – mi dicono.
“Ma noi non abbiamo acqua e biscotti cosi per tante persone, scusate” – gli rispondo. - “Voi sapete meglio di me chi ha bisogno di aiuto con più urgenza” – provo ad argomentare.
“Scegli tu!” - insiste un altro, parlando con me in inglese e con i compagni di viaggio in arabo. C'è una certa tensione.
“Diamo prima a quelli che fanno il Ramadan, sono loro i più deboli!” – s’irrita quello che parla meglio inglese.
Da un momento all'altro, come un angelo custode, riappare Rafiq. La situazione torna presto ad essere amichevole. Cerca di condividere con me la sua storia, pur nel suo inglese stentato.
Afghanistan. No school, no work.
“Da quanti giorni sei qui?”
“Quanti anni hai?” - risposta che solo mi riesce a dare scrivendo sulla terra un numero. Scrive "18".
“E quando hai iniziato il tuo viaggio?”
“Tre mesi fa.”
“Attraverso quali paesi sei passato?” – non capisce, fino a quando inizio a disegnare una carta sul suolo, con un bastoncino di legno.
“Afghanistan. Iran. Turchia. Bulgaria” - dice.
“E ora Serbia” - concludo. - “Family?
No. No father, no mother.
Silenzio.
Pum pum! Taliban.
Ancora più silenzio.
Senza padre, senza madre, senza lavoro e senza scuola, ora senza passaporto, Rafiq è un altro di questi esseri umani che si è lanciato sulla strada perché non ha nulla da perdere e solo l'Europa da guadagnare. Ci accompagna quando lasciamo il campo al calare della notte. Non sa ancora quando passerà il confine, forse oggi, forse domani. Mi abbraccia per salutarmi, poi raccoglie le mani sul cuore, in segno di gratitudine. Faccio lo stesso. E’ l'ultima immagine che mi rimane di lui, l'amico chiamato amico: “i nomi hanno potere".
In Ungheria, quando si dice "köszi szépen", grazie mille, è possibile che, dall’altra parte, la persona venga ringraziata in risposta con un "szívesen" che significa "dal cuore", come alternativa al "prego". Proprio così ho risposto a Rafiq, però nella lingua dei gesti.
“Ma come si dice rafiq in ungherese, Péter Toth?”

Traduzione dal portoghese di Serena Cacchioli

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