Obama, un alleato senza lustro

Pubblicato il 2 Novembre 2012 alle 14:28

Il contrasto è evidente. Da giorni i mezzi d’informazione europei soppesano con ansia le minime variazioni nei sondaggi sulle elezioni presidenziali e seguono attentamente l’evoluzione delle condizioni meteo sui cieli di New York. Dall'altra parte dell'Atlantico, invece, la parola “Europa” è stata pronunciata soltanto una volta durante l’ultimo dibattito tra Barack Obama e Mitt Romney. Gli osservatori europei lo interpretano come un segno che l’Europa non conta più nulla nel mondo, ma è anche la prova che gli Stati Uniti stanno abbandonando una visione globale per concentrarsi sui temi che considerano legati ai loro interessi: l’economia e l’impiego, le relazioni con la Cina e lo stato sociale.

Ormai è evidente che Obama rappresenta la svolta di un’America che non si sente più vicina al Vecchio continente. Nato alle Hawaii da padre africano e cresciuto in Indonesia, Obama è a capo di un paese dove la popolazione ispanica, nera e asiatica è in costante aumento. Anche il candidato repubblicano, nato in New England ma mormone, non ha più molti legami con l’élite Wasp (bianchi, anglosassoni e protestanti) che ha indirizzato la politica interna ed estera per decenni.

Durante il (primo?) mandato di Obama l’Europa ha dovuto gestire due eredità: le guerre in Iraq e Afghanistan e la crisi dei subprime scoppiata nel 2007. Dopo accesi dibattiti interni (che per esempio hanno fatto cadere il governo olandese) e forti tensioni all’interno della Nato, la maggior parte dei paesi europei ha intrapreso o terminato la ritirata delle sue truppe dall’Afghanistan, senza rimettere in discussione il legame con l’America o l’unità dell’Ue (come invece era accaduto nel 2003 con la guerra in Iraq).

La crisi dei subprime – diventata poi crisi delle banche, del debito, dell'economia e della società – è invece un’eredità molto più pesante. Nonostante innumerevoli vertici del G8 e del G20 e lunghe telefonate tra Obama e i leader europei, non è stata concordata nessuna strategia comune ed efficace. Inoltre, malgrado l’influenza reciproca della salute del dollaro e dell’euro, Washington e l’eurozona non hanno intrapreso una politica monetaria di concerto, soprattutto nei confronti dello yuan cinese.

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Obama, che ha gestito le relazioni transatlantiche in videoconferenza, si è schierato al fianco dei britannici e dei francesi nel loro intervento in Libia, fornendo armi e supporto ai due eserciti e probabilmente evitando loro un fallimento umiliante. Ma il presidente americano ha anche lasciato soli gli europei nella loro lotta contro il cambiamento climatico, e grazie a lui il pianeta ha perso qualche prezioso anno di vita. Per l’Europa lo slogan “yes, we can” – che nel 2008 radunava a Berlino migliaia di persone cariche di speranza – si è tradotto in un periodo di transizione senza lustro. Eppure l’Europa continua a “votare” Obama. Perché per un continente post-storico sono meglio i rapporti rasserenati che il fracasso di Bush o il conservatorismo poco comprensibile di Romney.

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