Opinion, ideas, initiatives Nuovo governo in Italia

Un avvertimento per tutta Europa

Se è probabile che di fronte alla realtà il nuovo governo nazional-populista finisca per abbandonare il proprio avventurismo economico, il suo arrivo deve comunque far riflettere i dirigenti europei sul ritorno del tropismo identitario, spiega l’analista finanziario Edouard Tétreau.

Pubblicato il 10 Giugno 2018 alle 15:47

“La situazione politica in Italia è grave... ma non è seria.” In questi giorni, a Roma si sente spesso ripetere questo aforisma di Ennio Flaiano, giornalista e autore negli anni Sessanta e amico di Federico Fellini.

Sì, la situazione politica è grave: il potere è ormai nelle mani di un’alleanza improbabile tra i comici dispendiosi del Movimento 5 Stelle e la destra nazionalista e filo-imprenditoriale della Lega, sostenitori dell’ortodossia finanziaria e della sicurezza in un paese estremamente indebitato e sommerso dal flusso migratorio (700mila migranti arrivati sulle coste italiane dal 2013, 90 al giorno negli ultimi cinque mesi). Si moltiplicano gli slogan violenti contro i migranti (“fate le valigie”), la caccia alle streghe (divieto ai massoni di far parte del governo), le promesse di assorbire i conti pubblici in un programma che i leader di estrema sinistra come Jean-Luc Mélenchon, Nicolás Maduro e simili non rinnegherebbero.

La situazione è dunque sufficientemente grave per far preoccupare Europa e mercati: in meno di un mese i tassi decennali sono saliti dello 0,75 per cento. Le agenzie di rating e i broker inglesi esultano di fronte agli scenari più apocalittici sull’Italia, dipinta come una “nuova Grecia” che l’Unione europea non potrebbe salvare, in ragione delle dimensioni del suo debito (2.400 miliardi di euro), della fine annunciata del programma di sostegno della Bce e della crescente ostilità dei partner europei dell’Italia, in primo luogo da parte della Germania.

La situazione è grave, ma non è seria almeno per tre ragioni.

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Innanzitutto, una realtà storica e statistica: l’Italia del dopoguerra ha collezionato 67 governi in 62 anni. I governi passano, gli slogan e le dichiarazioni tonanti pure, ma i fatti restano. L’Italia, nonostante i suoi difetti, resta l’ottava potenza economica mondiale, gode di un saldo primario di bilancio positivo e di una ricchezza patrimoniale ineguagliata, sulla quale potrà contare in caso di grave crisi, e ha saputo mantenere le condizioni per una reale solidarietà familiare e intergenerazionale.

Inoltre, chi vi scrive scommette quel che volete che il governo non supererà l’anno: la realtà dei fatti avrà la meglio su questa alleanza contro natura tra due populismi del tutto opposti. Il giudice di pace sarà ancora una volta l’euro e la difesa, da parte degli stessi italiani, del loro portafoglio.

Un conto è accontentarsi di parole e slogan incendiari contro una moltitudine di capri espiatori, un altro è abbandonare l’euro: i centri studi stimano che un’uscita dalla moneta unica comporterebbe una svalutazione di almeno il 30 per cento della valuta nazionale e, di conseguenza, del potere d’acquisto italiani. Ora, nessuno dei partner europei dell’Italia, tanto meno la Bce né i mercati, consentiranno all’Italia di generare 100 miliardi di euro di spesa supplementare annua continuando a poter prendere denaro in prestito allo stesso tasso di Germania o Francia.
Il governo Conte dunque, nel giro di poche settimane o pochi mesi, si troverà a implodere oppure, com’è avvenuto in Grecia col governo Tsipras, sarà obbligato a fare i conti con la realtà e i suoi limiti.

Ma questo episodio italiano mostra una situazione anche più grave e seria: la disgregazione, sotto i nostri occhi, della solidarietà e dell’unità europea, proprio nel momento in cui l’Europa si confronta con sfide esistenziali. Negli ultimi dieci anni non sono certo mancate le occasioni di riscatto e di unità dell’Europa: dalla crisi dei subprime americani nel 2008 – abilmente trasformata in crisi dell’euro dagli Stati Uniti – alle dichiarazioni di guerra commerciale dell’amministrazione Trump nei confronti degli alleati degli Stati Uniti, Canada ed Europa; dall’espansionismo industriale e militare cinese, col pretesto della nuova Via della Seta, arrivando fino ai flussi migratori verso il Vecchio continente.

Ora, da circa dieci anni, i paesi europei, con la nota eccezione della Francia di Emmanuel Macron, uno dopo l’altro si stanno spostando verso la riaffermazione nazionale e dell’ognuno per sé. Anche il molto aperto e commerciante Regno Unito, difficilmente definibile come “illiberale”, ha scelto il “Britain First”, nonostante ciò che gli costa a livello economico.

In un XXI secolo in cui gli stati riaffermano la loro identità e le loro particolarità, a volte pagandone il prezzo in termini di crescita, chi sono i retrogradi e chi i moderni? Le élite che si rifiutano di guardare in faccia la realtà e continuano a mostrarsi come una società aperta in un mondo che si richiude su sé stesso? O la gente che, sfidata dall’accelerazione dei mutamenti in tutti i settori, dalla bioetica all’economia, a tutto ciò si oppone, dice “basta”? Allo stesso modo in Italia, il paese che più somiglia alla Francia e che l’ha singolarmente anticipata nel proprio ciclo politico (il berlusconismo come precursore del sarkozismo, Monti, Letta e Renzi che preannunciano il macronismo), la gente cerca protezioni e punti di riferimento plurisecolari. Quelli della nazione e nel modello tradizionale della famiglia.

Negando questa evidenza ed esprimendo anche una certa arroganza tecnocratica, Barack Obama e i moderati italiani hanno rispettivamente favorito l’emergere di Donald Trump e di Matteo Salvini. Senza rinnegare il suo posizionamento aperto ed europeo, incentrato sulla ragione, Emmanuel Macron deve ora riuscire a dare maggior peso a queste ragionevoli domande di protezione delle nostre identità. Prima che diventino profondamente irragionevoli.

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