Attualità Congiuntura economica

L’Europa potrà evitare la prossima crisi?

La Germania entra in recessione e gli Stati Uniti potrebbero seguire la stessa strada; la crisi politica italiana si aggrava; le incertezze legate alla Brexit sono più forti che mai; la guerra commerciale fra la Cina e gli Stati Uniti non accenna a finire; Iran, Siria, Venezuela, Hong Kong, Corea del nord: le tensioni geopolitiche continuano ad accumularsi. L'Europa sarà capace di reagire a questi segnali di tempesta? Tutto ciò dipenderà in gran parte dalla capacità del governo tedesco di rinunciare (finalmente) ai dogmi imposti alla zona euro negli ultimi dieci anni.

Pubblicato il 23 Agosto 2019 alle 09:43

Nel secondo trimestre 2019 la crescita della zona euro si è ridotta a un esiguo 0,2 per cento rispetto al trimestre precedente. L'economia tedesca, la prima della zona euro, è entrata in una fase difficile mentre l'economia italiana, la terza della zona, ristagna. Anche Il Regno Unito, seconda economia dell'Unione europea, ha visto il suo prodotto interno lordo (Pil) scendere dello 0,2 per cento. E per ora nulla sembra indicare che la situazione migliorerà nel terzo trimestre, anzi la Germania dovrebbe ufficialmente entrare in recessione.

Nel Paese, che da solo rappresenta il 29 per cento del Pil della zona euro, è soprattutto l'industria a soffrire: in questo settore l'attività si è già contratta del 7,5 per cento dalla fine del 2017. La produzione automobilistica è tornata al suo punto basso del 2009, nel momento più grave della crisi. Ma anche il settore bancario è in grande difficoltà e le due principali banche private del paese – la Deutsche Bank e la Commerzbank – stanno mettendo in difficoltà tutto il settore in Europa.

In questo contesto difficile la Francia si comporta un po' meglio dei suoi vicini, con una crescita del Pil dello 0,2 per cento nel secondo trimestre. Ma in un anno il Pil è aumentato solo dell'1,3 per cento, rispetto al 2,5 per cento del secondo trimestre 2018, la metà rispetto a 12 mesi fa.

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E questo in un contesto in cui il deficit pubblico supererà di nuovo quest'anno il 3 per cento del Pil a causa del cumulo del Credito di imposta di competitività per l'occupazione (Cice) per il 2018 e della continua riduzione degli oneri sociali pagati dalle imprese che lo sostituiscono, un regalo fatto alle imprese e stimato in una quindicina di miliardi di euro, ai quali si aggiungono le misure decise in seguito alla crisi dei gilet gialli, che rappresentano da sole una spesa di 17 miliardi di euro (in parte da pagare nel 2020).

Grazie a questi impulsi l'economia francese, meno industriale e dipendente dalle esportazioni rispetto a quella dell'Italia e della Germania, dovrebbe essere più dinamica. Ma in un contesto internazionale complicato, il governo del Paese ha probabilmente reso insicuri i francesi con le misure prese o annunciate per rendere più flessibile il mercato del lavoro, per ridurre la spesa pubblica, per limitare l'assicurazione-disoccupazione o per rimettere in discussione il sistema pensionistico, annullando così, di fatto, una parte significativa dell'effetto di rilancio delle misure di bilancio in favore di un risparmio cautelativo.

Ma la di là del caso francese, che cosa può fare l'Europa per evitare che si inneschi una nuova spirale recessiva come quella che abbiamo conosciuto 10 anni fa? Secondo la Commissione europea ancora quest'anno la zona euro dovrebbe produrre un eccedente estero di 380 miliardi di euro, cioè il 3,2 per cento del suo Pil. In altre parole viviamo molto al di sotto dei nostri mezzi e di conseguenza i nostri margini di manovra rimangono importanti. Ma a causa dei dogmi che dominano la politica europea da 10 anni a questa parte, non è sicuro che riusciremo a mobilitarli.

Contro il rallentamento dell'economia, la banca centrale può prima di tutto ridurre i tassi di interesse a breve termine ai quali presta alle banche e iniettare direttamente del denaro nel circuito economico (il famoso Quantitative easing adottato su vasta scala dal 2012). Ma i tassi di riferimento della Bce sono già nulli, poiché applica dei tassi di interesse negativi sul denaro che le banche lasciano presso di lei invece di prestarlo. E a forza di creare della moneta supplementare comprando dal 2012 grandi quantità di titoli sui mercati finanziari, la Bce ne detiene per 4.678 miliardi di euro, cioè il 39 per cento del Pil della zona euro, il doppio della riserva federale americana.

Inoltre questa politica sembra avere solo un effetto limitato sull'economia reale, come illustra la debolezza persistente della crescita e dell'inflazione: nell'agosto scorso l'aumento dei prezzi è stato solo dell'1 per cento annuo nella zona euro, meno della metà dell'obiettivo del 2 per cento auspicato dalla Bce. Ma la riduzione dei tassi di interesse che provoca la politica monetaria della Bce ha anche come risultato quello di annullare i redditi da risparmio delle classi medie, collocati spesso in prodotti finanziari a basso rischio. Da ciò deriva il malcontento di molti tedeschi, che risparmiano molto, nei confronti della Bce.

In compenso questa politica ha l'effetto di drogare i prezzi degli attivi, azioni e settore immobiliare, cosa che permette ai più ricchi di guadagnare senza sforzo importanti plusvalenze sul loro patrimonio e agli intermediatori finanziari, che gestiscono questi investimenti, di ottenere delle importanti commissioni. Per questo motivo questi attori rimangono favorevoli a politiche monetarie sempre più accomodanti. Di fatto i margini di manovra della Bce sono ormai limitati, anche se questa istituzione dovrebbe adottare ancora qualche misura supplementare in settembre, e in ogni modo non è auspicabile continuare a fare affidamento su di essi per sostenere l'attività.

Nell'attuale contesto di tassi di interesse sui titoli di Stato molti bassi si dovrebbe soprattutto ricorrere di più a politiche di disavanzo di bilancio. Quest'anno nell'insieme della zona euro questo deficit dovrebbe essere solo dello 0,9 del Pil. Si tratta indubbiamente di 0,4 punti del Pil in più rispetto al 2018, poiché la Francia e l'Italia hanno un po' allentato la loro disciplina di bilancio. Ma rimangono ancora margini importanti, anche nel rispetto del famoso limite del 3 per cento del Pil.

Tuttavia sarà complicato utilizzarli a causa del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance (Tscg) adottato nel 2012. Questo trattato infatti vieta agli Stati il cui debito pubblico supera il 60 per cento del Pil di aumentare il proprio indebitamento. Il problema è che la politica economica seguita dal 2010 a questa parte ha mantenuto l'economia europea sull'orlo della recessione, e di conseguenza non ha permesso di ridurre il debito pubblico: al di fuori della Germania questo debito è nella zona euro sempre del 97 per cento del Pil, di fatto si è ridotto solo di 5 punti rispetto al livello raggiunto nel 2014. Per poter reagire in modo adeguato al rallentamento attuale si dovrebbe quindi seppellire il Tscg. Una cosa molto difficile da ottenere.

La Germania ha un'eccedenza di bilancio di 1 punto del Pil e ha approfittato della sua posizione privilegiata dopo la crisi per riportare il suo indebitamento al 58 per cento del Pil.

Oggi, quindi, la Germania è il paese che ha al tempo stesso più bisogno di sostenere la propria attività e quello che dispone dei maggiori margini di manovra per farlo. Ma sarà in grado di utilizzarli? Non è così evidente.

In primo luogo perché a Berlino la gravità della situazione non è ancora pienamente percepita. Nel 2009 la Germania aveva infatti conosciuto una profonda recessione – una riduzione del Pil del 5,6 per cento nel quarto trimestre 2009, il doppio rispetto alla Francia – ma il paese si è ripreso rapidamente senza un massiccio intervento pubblico grazie alla domanda delle sue macchine e delle sue automobili da parte dei giganteschi piani di rilancio della Cina e degli Stati Uniti. Tuttavia sembra poco probabile che oggi si riproduca uno scenario analogo, e dopo lo scandalo dei motori diesel la crisi dell'automobile rischia di continuare in seguito ai grandi cambiamenti che stanno interessando il settore. Se la Germania non capirà abbastanza in fretta la necessità di fare ricorso a un'azione pubblica forte e prolungata per uscire dalla crisi, il suo futuro rischia di complicarsi. Non solo per lei, ma anche per i suoi partner industriali.

Le necessità della Germania sono considerevoli: da 20 anni il paese ha investito troppo poco nelle sue infrastrutture pubbliche, anche se un piccolo sforzo ha cominciato a essere fatto negli ultimi tre anni; la povertà è più alta che in Francia, in particolare fra le persone anziane; per quanto riguarda la transizione energetica, anche se molto è stato realizzato, l'uscita congiunta dal carbone e dal nucleare rimane una sfida colossale; inoltre il paese deve ormai affrontare una crisi degli alloggi nelle sue città che potrà essere risolta solo con un forte intervento pubblico.

Anche se esistono dei margini di manovra, è però difficile attivarli a causa di un blocco ideologico nei confronti dell'azione pubblica in un paese profondamente imbevuto di ordoliberalismo e caratterizzato da forti vincoli costituzionali.

Nel 2009 la Germania ha inserito nella sua costituzione una Schuldenbremse un "freno al debito". Questa disposizione vieta ai Länder qualunque ricorso al deficit e limita quello dello Stato centrale allo 0,35 per cento del Pil, si tratta della cosiddetta politica dello schwarze Null, lo zero nero (rispetto al rosso dei deficit). In realtà si tratta di un deficit detto “strutturale” – in caso di rallentamento dell'economia si può’ andare più lontano e delle clausole di salvaguardia sono previste in caso di grave crisi – tuttavia l'esistenza di questa clausola complica l'adozione di un eventuale piano di rilancio.

Olaf Scholz, il ministro delle Finanze socialdemocratico, ha evocato a fine agosto la possibilità di un piano di rilancio di 50 miliardi di euro, cioè dell'1,4 per cento del Pil tedesco. Ma per ora si tratta solo di una semplice ipotesi. E la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il grande quotidiano conservatore tedesco, ha subito pubblicato un editoriale in prima pagina per affermare che "un pacchetto congiunturale non è necessario". Il governo tedesco ha comunque già deciso il mese scorso una riduzione delle imposte di 10 miliardi di euro, lo 0,3 per cento del Pil, ma questa misura sarà operativa solo nel 2021.
L'ultimo strumento a cui si può ancora ricorrere è rappresentato dalle politiche del mercato del lavoro. In effetti le politiche per rendere più flessibile il mercato e per la riduzione del costo del lavoro condotte attualmente in tutti i paesi europei, contribuiscono ad alimentare la deflazione nella zona euro. Queste politiche si riflettono in particolare in quelli che sono definiti i "costi unitari di manodopera": il costo del lavoro necessario per produrre un euro di ricchezza. Negli ultimi anni nella zona euro questo costo ha continuato a ridursi, contraendosi di 3 punti dal 2009.

In effetti, dopo aver fatto ricorso al dumping sociale agli inizi degli anni 2000, il costo del lavoro tedesco si è rimesso ad aumentare dal 2016, in particolare con l'introduzione di un salario minimo, che ha permesso di rilanciare la domanda interna tedesca.

Ma gli effetti negativi del periodo Schröder non sono ancora del tutto scomparsi. Negli ultimi anni l'Italia e la Spagna hanno preso il posto della Germania in questa corsa contro lo Stato sociale. L'aumento dei salari, in particolare attraverso i salari minimi (e la sua prossima possibile introduzione in Italia, uno dei pochi paesi europei a non averlo), sarebbe oggi una necessità.

Ma attualmente non esiste alcuna leva istituzionale per coordinare una politica del genere in Europa. Come nel caso del deficit pubblico, questo rilancio attraverso i salari non riguarda direttamente la Francia dove i costi salariali unitari non sono quasi scesi negli ultimi anni.

Di fronte alla crisi che incombe gli europei e soprattutto i nostri vicini tedeschi saranno capaci di disfarsi in tempo dei loro paraocchi? Una situazione che dovremo seguire con attenzione (e da vicino).

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