Il negozio di Sultana, a Roma | Foto: ©Lucrezia Tiberio Lucrezia Tiberio roma voxeurop

Migrazione e integrazione delle donne bangladesi in Europa: tra barriere invisibili e piccole rivoluzioni quotidiane

Migrazione e integrazione delle donne bangladesi in Europa: tra barriere invisibili e piccole rivoluzioni quotidiane

Pubblicato il 1 Ottobre 2025
Lucrezia Tiberio roma voxeurop Il negozio di Sultana, a Roma | Foto: ©Lucrezia Tiberio

Fondano organizzazioni di volontariato, conquistano diplomi di lingua saltando tra i livelli A2 a C1, lanciano imprese e collaborano con la comunità, impegnandosi a tenere vive le tradizioni del paese d’origine. Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni dello scorso anno, sono più di 400 mila le donne bangladesi presenti in Europa; molte di loro seguono i mariti con il ricongiungimento familiare, mentre una minoranza arriva con permessi di lavoro o studio. 

In Germania sono 15 mila i residenti bangladesi e le donne, pur rappresentando una piccola comunità, hanno opportunità di studio e di impiego. L’Italia è una delle maggiori destinazioni della diaspora dal Bangladesh e conta quasi 100 mila cittadini, di cui la metà sono donne. Nonostante sia la terza nazionalità straniera più presente in Italia, secondo il report Ismu che si occupa di fenomeni migratori e integrazione, le donne bangladesi sono per la maggior parte inoccupate. Le ragioni sembrano risiedere nei bassi livelli di istruzione, nella scarsa integrazione linguistica, le discriminazioni di genere subite sia dalla cultura di provenienza che di quella ospitante. 

Non parlarmi, non ti capisco  

L’ostacolo comune alle donne che hanno lasciato il Bangladesh incontrate in Italia e in Germania è la conoscenza della lingua. In Italia da quasi 10 anni, le donne della comunità bangladesi di Monza seguono un corso di italiano organizzato nella scuola dei loro figli “per poter conoscere le parole necessarie per essere una buona madre: sono io che poi vado dagli insegnanti, devo capirle” spiega Amena Begum. C’è Farida Yeasmin che la sta imparando scrivendo poesie in due lingue e ne mostra timidamente una dedicata alla città: guardando la versione in lingua originale si può immaginare lo sforzo che le chiede.  

Lo stesso accade per la maggior parte delle donne bengalesi della comunità di Roma, o per quelle in Germania. 

Non si tratta solo del livello di istruzione e, raccontando la propria esperienza, Ayesha Siddika lo conferma. Nonostante abbia studiato all’università e sia da ormai 4 decenni a Bonn, tuttora anche lei fatica ad adattarsi al nuovo ambiente, alla lingua e alla cultura tedesca. “La lingua resta sempre la principale difficoltà all’integrazione per quasi tutte e questo rende molte di noi estremamente dipendenti dal coniuge”, racconta. 


"Tra le donne arrivate in Italia molte decidono di fare le casalinghe solo perché gli uomini impediscono loro di uscire e di imparare la lingua, mia madre compresa” - Lintha


Al di là dell’impegno delle singole, tra Italia e Germania esiste differenza nella gestione nell’insegnamento della lingua che può impattare sui tempi di integrazione e di emancipazione, sempre che la raggiungano. Ufficialmente, quando entrano in Germania, le donne bengalesi devono frequentare corsi obbligatori di 700 ore totali (tedesco + educazione civica) finanziati dallo stato e, dopo tre anni, ottengono una considerevole autonomia e un vantaggio sul mercato del lavoro, se mai vi si affacceranno. 

In Italia, la normativa sulla lingua italiana per stranieri è confusa e i ritardi delle amministrazioni spesso impediscono l’obbligatorietà dei corsi. Capita che le donne bangladesi trascorrano decenni senza sapere l’italiano, rimanendo dipendenti ai maschi della famiglia per esprimersi. 

A Roma e a Monza, però, ci sono corsi di lingua gratuiti che si trasformano in spazi di dialogo. L’ong Intersos ha creato un Safe Space, dove il corso settimanale di italiano è anche l’occasione di trascorrere qualche ora tra donne, senza il carico mentale del lavoro domestico, e dove ogni parola imparata è un piccolo strumento di emancipazione. Non solo, le operatrici raccontano anche che in quello spazio sicuro alcune donne condividono episodi di abusi subiti e iniziano un percorso di fuoriuscita dalla violenza.  

Permessi o trappole? 

Quello che non riesce a fare la barriera linguistica lo fa il quadro giuridico, in Italia e in Germania. Il ricongiungimento familiare, strumento prezioso per garantire l’unità familiare, lega però molte donne al ruolo di mogli e ne limita i percorsi di autonomia. 

In caso di divorzio, ad esempio, questa condizione le espone a ulteriori svantaggi, rendendo ancora più fragile la loro posizione. Lo spiega Sultana, imprenditrice bangalese da anni a Roma, che racconta le storie di indipendenza ed emancipazione, ma anche mariti “comandanti” e di “donne giovani che arrivano già sposate e rimangono intrappolate in rapporti di dipendenza perenni”.

Sultana nel suo negozio di Roma | Foto: Lucrezia Tiberio
Sultana nel suo negozio di Roma | Foto: ©Lucrezia Tiberio

Anche in Germania molte donne arrivano con il ricongiungimento familiare, ma per restare devono comunque dimostrare impegno nell’imparare la lingua e nell’integrarsi. Nonostante questa timida “spinta” normativa all’emancipazione, anche in questo paese il loro visto dipende sempre dal coniuge. “Spesso non possono lavorare e imparare la lingua, ma nemmeno andare in bicicletta perché i mariti non vogliono. Capita spesso che il marito accompagni la moglie al supermercato e alle visite mediche, limitandone ulteriormente l’indipendenza”, racconta Khaleda Parvin. Khaleda è una delle donne arrivate e rimaste in Germania, a Francoforte, ma Falguni Mridha racconta di condizioni simili anche a Bonn. Parla di “vita incatenata” e di “donne bangladesi a cui non è stato permesso di tornare in patria per 30 anni per incontrare genitori e parenti e che non possono spendere i propri soldi come desiderano”. 

Oltre a casalinghe a cui viene negata anche l’opportunità di conseguire la patente o di imparare il tedesco fino al livello intermedio, Falguni Mridha racconta anche di “studentesse bangladesi che lavorano duramente per iniziare la propria carriera, ma che appena si sposano, mollano tutto per occuparsi della casa e dei figli”. Oppure di “lavoratrici che aprono un conto bancario congiunto con il marito, lasciando che controlli ogni loro minima spesa”. 

Comoda invisibilità 

Alcune donne bangladesi residenti in Germania riportano anche casi di abusi, torture fisiche e psicologiche da parte del coniuge che restano nascoste “a causa delle barriere linguistiche che impediscono alle vittime di denunciarle”.​​​​​​​​​​​​​​​​ 

Dall'Italia arrivano storie simili, con testimonianze di donne che raccontano di reclusioni invisibili all'esterno. Nella capitale italiana, la densità abitativa dei quartieri periferici nasconde la sofferenza di molte donne. A Monza, le donne bangladesi sono quasi 500 ma non si vedono. Anche passeggiando “nel loro quartiere” come lo definiscono i cittadini autoctoni, di donne bengalesi non se ne vedono molte. L’eccezione che conferma la regola è Halima Naim, una parrucchiera separata e indipendente che squadra ogni persona italiana che entra, ma se nei suoi occhi non trova giudizio, apre la porta del suo piccolo e curato saloon e le racconta del Women's Corner. 


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Nato da parecchi anni, questo gruppo di donne bangladesi - monzesi aiuta le connazionali appena arrivate, accogliendole all’interno del gruppo e aiutandole ad orientarsi nella nuova realtà sia dal punto di vista pratico, con utili consigli sulla gestione del quotidiano, che sociale, con la compagnia e le chiacchierate nella loro lingua.

Una sfida, anche perché le gerarchie interne alla comunità bangladesi, prettamente in mano agli uomini, non sembrano essere propriamente funzionale per gli esponenti di genere femminile, sia in Italia che in Germania. Tuttavia in quest’ultima le iniziative sembrano essere più organizzate, per via delle maggiori risorse economiche e culturali; esiste un canale di informazioni bilingue "Germa Bangla News Channel" e le donne prendono parte a molti festival culturali aggregativi. 

La speranza di cambiare con le seconde generazioni 

“Siamo una comunità solo in occasioni speciali, per il resto non ci si frequenta molto: in Italia era diverso, ci si incontrava quasi ogni giorno”, racconta Mukta Khatun. Lei ha raggiunto il marito in Italia, dove è rimasta 12 anni, ha avuto due figli e oggi vive con la famiglia in Germania. La sua emigrazione in due step permette di guardare entrambi i paesi. 

“L’Italia è bella e mi manca, ho già detto ai miei figli che da vecchia voglio tornarci ma è proprio pensando a loro e al lavoro di mio marito che ci siamo spostati in Germania. C’era troppo sfruttamento, zero rispetto della dignità e delle regole, paghe misere e pochissime opportunità per il futuro. Io voglio che i miei figli ne abbiano tante”. Mukta Khatun ha nostalgia di cibo e clima, dei medici “gentili come amici di famiglia” e della gentilezza raffazzonata di chi provava a comunicare con lei a gesti, “per intendersi anche senza parole”. In Germania, però, suo marito ha un lavoro fisso, regolare e dignitoso, la sua famiglia “non ha bisogno di aiuti sociali, e sa che se i suoi figli studieranno, “potranno scegliere di fare il lavoro che desiderano”.

Dal suo racconto emerge la forte determinazione nel voler garantire anche a sua figlia di 12 anni un futuro libero. Nata in Italia, Shaikh parla già quattro lingue e passa dall’una all’altra aiutando la madre a comunicare. Le manca il gelato e il sole italiani, mima con una smorfia quanto la Germania sia più “noiosa”, ma riconosce i vantaggi di vivere lì. 

Nelle bangladesi di seconda generazione è un tratto comune, a quanto riferito dalle ong che intercettano le donne anche bangladesi, e sempre più progetti no profit vogliono trasformarlo in una leva di emancipazione anche per quelle di prima generazione. 

In Italia, per esempio, la onlus Arci Solidarietà di Roma ha organizzato il progetto “FATIMA II”, che secondo Lintha, 21 anni, è un successo. L’obiettivo era di contrastare quelle forme di violenza legate all’onore. È arrivata in Italia due anni fa con la madre, tramite ricongiungimento familiare, lavora come commessa e studia psicologia. Lintha ha partecipato al progetto perché “interessata alle tematiche sugli stereotipi di genere e il consenso.

Non tutte le ragazze riescono a parlarne in famiglia: questa è l’occasione per condividere tutto ciò che crea frustrazione a noi ragazze e del contrasto tra le due culture. In quella bangladese il divario di genere è più marcato: tra le donne arrivate in Italia molte decidono di fare le casalinghe solo perché gli uomini impediscono loro di uscire e di imparare la lingua, mia madre compresa”, racconta. 

Senza tacere il fastidio provato quando le dicono “sei brava a parlare l’italiano”, Lintha è convinta che le cose possano cambiare, soprattutto con le seconde generazioni, consapevoli di avere anche “il compito di aiutare ragazze meno integrate a sentirsi parte della comunità locale”, dice. I ragazzi per ora non sembrano avere intenzione di farlo, nonostante il progetto fosse inizialmente pensato per loro. Pur parlando solo alle donne, FATIMA II ha dimostrato che è possibile creare un dialogo tra diverse generazioni di donne bangladesi. 

La convivenza disegnata a 4 mani 

Centinaia chilometri più a Nord, sempre in Italia sta decollando un progetto completamente diverso: “Fili di storie. Ricami di pace” e lo ha creato Progetto Integrazione in collaborazione con insegnanti del CREI (Centro risorse educative interculturali) dell’Istituto Comprensivo di Via Correggio e del Comune di Monza e con il sostegno di Fondazione della Comunità di Monza e Brianza. 

Questa iniziativa prevede da subito la partecipazione diretta delle donne bangladesi che ne sono anche le principali utenti. La sua particolarità sta infatti proprio nell’aver ascoltato i loro bisogni da subito, senza decidere prima come fosse utile aiutarle.

Giovane bangladese ricamatrice di Kata, Monza | Foto: Marta Abbà
Giovane bangladese ricamatrice di Kata, Monza | Foto: ©Marta Abbà

“Identificata come priorità la necessità di far conoscere la propria cultura e di trovare un lavoro, abbiamo strutturato varie attività partendo da un laboratorio scolastico di ricamo tradizionale bangladesi (“katha”, che significa pace) gestito direttamente da 3 delle donne partecipanti”, racconta Cristina Rossi, referente di Progetto Integrazione. Sono le prime donne “assunte” dal progetto e il progetto è il loro primo lavoro “ufficiale”, senza contare gli anni di lavoro di cura familiare che tutte hanno alle spalle. 

I ricami bangladesi si rivelano essere un efficace esercizio di concentrazione per i piccoli alunni della scuola: Katiuscia Melato del CREI racconta di quanto sia importante creare progetti dedicati strettamente alle donne bangladesi, e di come questo aspetto impatti fortemente sull’efficacia. “Stiamo notando un evidente rafforzamento delle relazioni interculturali: prima non esisteva e non si sarebbe mai creato davanti a scuola in modo spontaneo, solo perché mamme italiane, e non, sono nello stesso momento nello stesso posto. È necessario creare, anzi, co-creare opportunità”, spiega. 

A lungo termine, il progetto mira ad offrire alle donne un possibile percorso di lavoro come mediatrici culturali. “Quelle bangladesi sono rare e particolarmente richieste in scuole, ospedali, centri antiviolenza, e ovunque occorra l’intervento di operatori ponte tra culture. È inoltre una professione spesso compatibile con gli impegni familiari a cui a molte non è permesso sottrarsi  ci vogliamo arrivare passo per passo, per esempio iniziando ad aprire il gruppo ad altre culture e a realizzare laboratori Khata extrascolastici, anche in collaborazione con le biblioteche”, racconta Rossi . 

Questo progetto potrebbe diventare davvero “un vero e proprio laboratorio di dialogo interculturale” come già lo descrivono Ilura, Moriam e Panna, tre donne bengalesi che vi partecipano? “Ora desideriamo far conoscere la nostra cultura a tutta Monza” affermano determinate, e nelle chiacchiere tra un laboratorio e un altro, spunta anche l’idea di sperimentare delle cene bengalesi chiedendo spazi e supporto al circolo Arci della città.

Hanno iniziato a chiedere chi fa la spesa e se devono cucinare a casa loro o se ci sono le pentole giuste per le loro ricette. Non c’è ancora la data, ma c’è l’intenzione che brilla nei loro occhi tra veli più o meno coprenti. Lo sapranno, i mariti? “Al contrario di me e dei miei figli, mio marito si rifiuta di mangiare cibo italiano, per lui devo cucinare sempre apposta piatti bengalesi- quindi sarà contento”, racconta Fatama.

La sua ferma convinzione è la stessa con cui Falguni Mridha in Germania spiega che “il più grande ostacolo come comunità bengalese è la nostra mentalità: molti ancora non vedono di buon occhio il progresso delle donne. Ma non credo che noi non siamo indietro, e non lo saremo mai”. 

Che il marito le voglia controllare o meno, prima di etichettare le donne bengalesi come non emancipate sarebbe utile incontrarle. A volte fatichiamo a pensarle come donne libere, solo perché il loro percorso non corrisponde a quello del paese ospitante, ma sempre più spesso si sforzano di creare la propria libertà partendo dal loro piccolo (per ora) mondo quotidiano. Alcune partono da un quartiere di una città provinciale come Bonn o Monza, altre dal multietnico caos di metropoli come Francoforte o Roma, ma molte sono quelle che ci provano. 

*Tutti i nomi sono stati cambiati

 🤝 Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Abdul Hai e Fatama Rahman e con il sostegno di Journalismfund Europe
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