Ayan (nome fittizio) aveva otto anni quando sua zia le chiese di andare nel soggiorno di casa. Diverse donne, sedute in cerchio, la aspettavano. “Non sapeva cosa mi avrebbero fatto”, racconta. “Mi hanno detto di sedermi e poi le mie zie si sono sedute dietro di me”: le hanno tenuto ferma la testa, le spalle e il collo, mentre “altre due mi tenevano le gambe”, ricorda. Senza anestesia né antidolorifici Ayan è stata sottoposta a una forma grave di mutilazione genitale femminile (Mgf), “ricordo che ho vomitato”, continua.
Successivamente le hanno legato le gambe perché le ferite potessero cicatrizzare. Ayan è rimasta così, a casa della zia, per una settimana. Poi, una donna è andata a visitarla e ha detto che alcuni punti andavano rifatti: “Mia zia mi ha detto che lo faceva per me, pensando al mio futuro: ‘Altrimenti nessuno mi avrebbe sposata’”, ricorda. La seconda volta le ha fatto ancora più male. Ayan ha raccontato la sua esperienza a The Journal Investigate: si tratta, dice, di un dolore che non dimenticherà mai
Oggi Ayan ha 23 anni ed è una rifugiata somala in Irlanda: è arrivata nel febbraio 2025, chiedendo protezione internazionale. Dopo aver subito la Mgf, è stata costretta a sposare un uomo più anziano e ha subito violenze e abusi. È fuggita dalla Somalia in Grecia, e poi in Irlanda. La sua è una delle forme di mutilazioni più gravi, ha frequenti infezioni urinarie e ha bisogno di un intervento chirurgico.
| I dati in Europa |
| I dati dell’Istituto europeo per l'Uguaglianza di Genere (Eige) stimano che in Europa circa 600mila donne e ragazze, vivono con le conseguenze di mutilazioni genitali, altre 190mila sono a rischio di subirle e i numeri sono in aumento. Nel 2024, l'Unicef ha censito circa 230 milioni di ragazze e donne nel mondo che hanno subito mutilazioni genitali e sono sopravvissute. La mutilazione genitale femminile consiste nell'asportazione totale o parziale dei genitali esterni femminili, viene solitamente praticata su bambine di età compresa tra i 5 e gli 8 anni in circa 30 paesi dell'Africa e del Medio Oriente, nonché in diverse comunità dell'Asia e dell'America Latina. |
La chirurgia, isolata, non basta
Non si torna indietro da una mgf. Ma la chirurgia può parzialmente riparare i danni subìti e attenuare i dolori. Secondo le “raccomandazioni dell'Oms e dell'alta autorità sanitaria francese (Has), secondo cui la chirurgia isolata non ha molto senso e la buona pratica consiste nell'integrarla in un percorso multidisciplinare di accompagnamento globale, personalizzato e adattato alle esigenze di tutte le donne”, spiega Nina Tunon de Lara, che mi riceve nel suo ufficio all’ospedale André-Grégoire à Montreuil (un comune della Seine-Saint Denis a est di Parigi), specializzato proprio in questo.

Tunon de Lara è Coordinatrice responsabile di progetto per l’Unité “Réparons l'excision” una unità speciale creata in questo ospedale nel 2017 dalla ginecologa Sarah Abramowicz.
“L’obiettivo per noi è che tutte le cure siano coperte dal sistema sanitario nazionale, che non ci sia più chirurgia isolata”, spiega Tunon de Lara. Oggi la chirurgia fa parte delle cure alle quali una paziente ha diritto, contrariamente al supporto psicologico, alle consultazione di sessuologia etc. Ogni anno un centinaio di donne vengono operate in questa unità, che riceve pazienti da tutta la Francia: “La chirurgia ha senso se inserita in un percorso in cui si è potuto elaborare quello che è successo… perché ricostruire un clitoride non creerà desiderio sessuale”.
“Oggi è possibile ricorrere a interventi chirurgici in centri non specializzati nel trattamento delle donne vittime di violenza, ma non è una buona pratica, al contrario”, aggiunge. A Montreuil le donne che hanno subito mutilazioni genitali possono beneficiare di un'assistenza multidisciplinare che combina sessuologia, psicologia, gruppi di discussione e assistenza sociale. L’intero percorso è gratuito per le persone che accedono al servizio.
Senza accompagnamento l’intervento puo’ addirittura risvegliare ricordi traumatici della violenza subita, mi spiega.
“Le donne che hanno subito una mutilazioni genitali femminile, la prima cosa che ricorderanno per sempre è il taglio”, racconta a The Journal Investigates Ifrah Ahmed, attivista somalo-irlandese. “Tutto il resto viene dopo, dal diventare moglie al dare alla luce il primo figlio. ”Riescono ancora a sentire il taglio, riescono ancora a sentire le urla delle loro sorelle e riescono ancora a vedere il sangue. È un orrore".
“L'escissione è un fenomeno particolare nell'ambito della lotta contro la violenza sulle donne. Noi vogliamo poter dare voce anche alle donne vittime di mutilazioni genitali, affinché siano incluse nel continuum delle violenze sessuali femminili”, Nina Tunon de Lara
L’escissione è solo la prima di una serie di violenze ed è quello che l’unità di Montreuil cerca di rendere chiaro: “L'escissione è un fenomeno particolare nell'ambito della lotta contro la violenza sulle donne. Noi vogliamo poter dare voce anche alle donne vittime di mutilazioni genitali, affinché siano incluse nel continuum delle violenze sessuali femminili”, aggiunge Tunon de Lara “sia che si tratti di matrimoni forzati, di violenze coniugali di qualsiasi tipo (fisica, sessuale, psicologica) o che si tratti di persone che sono scappate da quella realtà per avviare un percorso migratorio durante il quale si subiranno ancora violenze [al quale segue] l'arrivo in Francia con violenze amministrative, spesso con un passaggio per la strada”. “Le donne vittime di mutilazioni genitali femminili, non tutte, ma molte, subiranno un gran numero di violenze e l'escissione è il punto di partenza”, ribadisce. È imporate considerla, mi spiega, come una violenza sessuale, non come qualcosa a parte.

Riporta Le Monde che in Francia (dati del ministero per le pari opportunità) sono 139.000 le donne che hanno subito l'escissione, che consiste nel taglio del clitoride e talvolta delle piccole labbra della vulva, e 28.500 le ragazze che sono a rischio di subirla. La regione di Parigi è la zona più colpita, in particolare la Seine-Saint-Denis: il 7,2 per cento delle donne che vivono in questo dipartimento l’hanno subìta.
“Réparons l'excision” – Ripariamo l’escissione – è un progetto pilota che ha avuto accesso ad una forma di sperimentazione della durata di tre anni: se approvato, diventerà un modello da estendere a tutto il territorio. Il lavoro di questo centro è oggetto di una mostra fotografica e sonora realizzata da Elodie Ratsimbazafy e Karine Le Loët.
La Rete europea per porre fine alla Mgf (END FGM) ha creato risorse con informazioni, mappe interattive e campagne. Uno dei materiali spiega “Come parlare della Mgf”, dove si avverte che è importante capire che si tratta di una violazione dei diritti umani e non di una pratica culturale, e che la sua perpetuazione coinvolge sia gli uomini che le donne.
“Penso che bisogna stare attenti al cliché dell'escissione in termini di provenienza dal paese. L'escissione non è solo un problema che riguarda l’Africa”, afferma Tunon de Lara: “Si riscontra anche in Asia, e penso che sia importante dirlo. È un fenomeno transculturale, transcontinentale e transreligioso”, conclude.
| Altrove in Europa |
| A Dublino, il gruppo di sostegno alle donne migranti AkiDwA forma regolarmente ostetriche, assistenti sociali e insegnanti sul riconoscimento e la segnalazione delle Mgf. Il centro FEM Süd di Vienna fornisce assistenza medica e psicologica e forma gli operatori sanitari. Tuttavia, secondo uno studio di BMC Public Health solo il 3 per cento delle donne che si stima abbiano subito mutilazioni genitali femminili ha un dossier medico.. Problemi simili sono segnalati anche in altri paesi occidentali. La Fondazione Dexeus Mujer, con sede a Barcellona, esegue interventi chirurgici gratuiti di ricostruzione genitale per le sopravvissute. In Spagna, il Protocollo sanitario nazionale del 2015 stabilisce come i professionisti dovrebbero identificare e rispondere alle mgf, ma le ong affermano che l'attuazione varia da regione a regione. |
🤝 Questo articolo è stato realizzato nell'ambito di una serie prodotta grazie progetto PULSE, un'iniziativa europea a sostegno della collaborazione giornalistica transforntaliera. Hanno contribuito alla sua realizzazione Patricia Devlin (The Journal Investigates, Irlanda), Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna) e Ann Wiener (Der Standard, Austria).
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