Attualità Crisi dei rifugiati
Tende Quechua nell'ex campo profughi improvvisato di Idomeni, vicino alla frontiera macedone.

Che futuro per i “bambini Quechua”, neonati senza stato?

Così vengono chiamati i figli dei profughi siriani nati nelle tende dei campi improvvisati. Per i genitori, riuscire a registrarli presso lo stato civile è indispensabile per stabilire la loro cittadinanza e richiedere l’asilo.

Pubblicato il 9 Agosto 2016 alle 11:56
Phil Le Gal/The New Continent  | Tende Quechua nell'ex campo profughi improvvisato di Idomeni, vicino alla frontiera macedone.

Saldamente avvolta in un kundaka, Noura sta dormendo tranquilla. Prima di lasciare la Siria per il lungo viaggio verso l’Europa i suoi giovani genitori hanno ordinatamente messo in valigia molte paia di kundaka, quei drappi di cotone in cui tradizionalmente si avvolgono i bambini durante i primi due mesi di vita. Il padre di Noura, Mohammed, si ricorda di quando dalla Siria aveva trasportato il corredo della figlia nello zaino e si era rifiutato di abbandonarlo quando dovevano disfarsi della maggior parte delle loro proprietà prima di salire sulla piccola imbarcazione per attraversare il mar Egeo.
Noura è una delle centinaia di bambini nati in Grecia da genitori in fuga dal loro paese per cercare asilo in Europa. È difficile avere dati sul tema. Nemmeno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) possiede statistiche precise.
Fotini Kesedopoulou, esperta di Protezione dell’Acnur nell’ormai vuoto campo improvvisato di Idomeni, nei pressi del confine con la Macedonia, racconta che qui la popolazione, che aveva raggiunto la quota massima di 12mila persone, cambiava troppo velocemente per tenere il conto dei nuovi nati. In ogni caso, prima che il campo venisse sgomberato alla fine di maggio, l’ong indipendente greca Praksis aveva distribuito pannolini per bambini di tre mesi a 125 famiglie e latte in polvere a dodici madri che non erano in grado di allattare i loro figli. Questo ci dà l’idea della popolazione neonata di un solo campo.
Heven, la madre diciannovenne di Noura, ha trascorso gli ultimi tre mesi della sua gravidanza nel campo di Idomeni, da dove lei e il resto della sua famiglia speravano di poter superare il confine con la Macedonia e poi andare diretti verso la Germania, dove alcuni membri della famiglia si sono già stabiliti. Di sicuro non si aspettava che sua figlia avrebbe trascorso la sua prima settimana di vita in una tenda.
La maggior parte dei figli di rifugiati nascono in ospedali locali, ma alcuni, che lo staff medico chiama affettuosamente “bambini Quechua” (per il nome della marca di un famoso tipo di tenda), non fanno in tempo a raggiungere l’ospedale e nascono in condizioni improvvisate. “Può rivelarsi abbastanza complicato”, ricorda Isabelle, un membro dello staff medico di Médecins du Monde, che ha aiutato a far nascere bambini in simili circostanze.
Quel che è certo è che tutti questi neonati trascorrono le prime settimane di vita in campi profughi nelle condizioni più estreme. Ma quel che li aspetta può rivelarsi anche più difficile da affrontare. Come per molte altre persone sfollate nel mondo, provare la propria nazionalità può diventare un problema. Ironicamente, in francese la traduzione della parola apolide, “apatride”, deriva dalla parola greca patris e significa “senza terra d’origine”. La Grecia potrebbe involontariamente creare futuri individui senza patria.
Quando si chiede la nazionalità di Noura, i suoi genitori rispondono a colpo sicuro che è siriana. Ma altri genitori di neonati affermano di sperare che, dato che loro figlio è nato in Grecia, questo gli consenta di ottenere un passaporto europeo. La maggior parte di loro non ne ha idea.
Anche Kesedopoulou ha detto che avrebbe dovuto fare qualche ricerca nella sede dell’Acnur prima di poterci rispondere. Il giorno seguente ha ammesso che i bambini la cui registrazione non viene effettuata correttamente corrono il grosso rischio di essere apolidi. “Siccome non c’è modo di dichiarare la nascita di un bambino all’ambasciata del proprio paese, è importante che i genitori seguano scrupolosamente la procedura greca di registrazione, per assicurarsi che i loro figli non diventino apolidi”, ha spiegato.
La procedura di registrazione prevede molteplici fasi di cui non tutti i genitori sono al corrente, in particolare se consideriamo che tutti i documenti che gli vengono rilasciati sono scritti in greco. Generalmente, gli ospedali rilasciano un certificato di nascita temporaneo per il neonato. Una volta ottenuto questo documento, i genitori devono recarsi al locale ufficio di polizia per certificare il nome del bambino e per firmare una dichiarazione congiunta. È importante che i due genitori dichiarino congiuntamente la nascita del figlio. In alcuni casi come quello della legge siriana, solo gli uomini possono trasmettere la cittadinanza ai propri figli.
“La legge siriana stabilisce che i cittadini devono seguire la legge sullo status personale del paese in cui si trovano. Per evitare situazioni di apolidia, se un legittimo certificato di nascita greco mostra il nome dell’uomo siriano in quanto padre, allora il bambino è siriano”, spiega Zahra Albarazi dell’Institute on Statelessness and Inclusion, un’organizzazione con sede nei Paesi Bassi.
Nel caso di Noura e di molti neonati incontrati nei campi che possiedono entrambi i genitori, la loro nazionalità può essere facilmente stabilita se si compie un’iscrizione precisa. Tuttavia, per i bambini siriani nati da madri single stabilire la loro nazionalità si è rivelato al momento praticamente impossibile.
“Cambiare la legge siriana sulla nazionalità, permettendo anche alle donne di trasmettere la propria cittadinanza ai figli, risolverebbe il problema”, sostiene Albarazi.
È stata co-autrice di un rapporto per conto del Norwegian Refugee Council (Nrc, il Consiglio norvegese per i rifugiati) che ha indagato la relazione fra l’apolidia e lo spostamento migratorio, evidenziando come l’essere senza patria sia una conseguenza della migrazione. Con quasi nove milioni di Siriani rifugiati all’estero o ancora in patria ma che si sono trasferiti in altre zone, e numeri in costante crescita, il rischio di apolidia, in particolare fra i neonati, è evidente.
Come spiega Albarazi, “è importante che i migranti siano sempre più consapevoli dell’importanza della documentazione, poiché anche se la mancanza di documenti non li rende apolidi, di sicuro li pone a rischio in vari contesti”.
“Un certificato di nascita ufficiale è determinante per poter fare domanda di asilo”, ha assicurato Kesedopoulou. L’Acnur e le autorità greche hanno usato questi argomenti per incoraggiare i rifugiati a lasciare i campi aperti e a sistemarsiin campi profughi ufficiali dove, come dichiarano le autorità, i neonati saranno sistematicamente registrati e le domande d’asilo verranno esaminate più rapidamente.
Questo è un incentivo importante che molte famiglie hanno tenuto in considerazione quando hanno deciso di spostarsi in campi gestiti dal governo, il che rende più sostenibile la loro vita, già in condizioni complicate. Speriamo che il dipartimento greco per l’immigrazione mantenga la promessa e rispetti sia l’impegno di registrare i bambini nati sul suo territorio, sia di velocizzare le procedure di richiesta d’asilo per tutti i rifugiati.
Gestire la situazione nel modo sbagliato renderà i rifugiati più frustrati e andrà ad aumentare la quota di 10 milioni di persone apolidi nel mondo, secondo i dati dell’Acnur.

Aggiornamento

Una nuova vita in Germania

Mentre scriviamo, Noura e i suoi genitori si trovano in Germania dove si sono riuniti agli altri membri della famiglia che si sono già installati lì. A poche settimane dalla nascita Noura è stata trasferita dalla Grecia alla Serbia, portata da sua madre attraverso le colline della Macedonia, e poi trasportata di campo in campo dalla Serbia all’Ungheria fino in Germania. La speranza è che là il suo status venga regolarizzato e che, sostenuta dalla forte volontà e capacità di ripresa dei suoi genitori, la aspetti un radioso futuro.

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Nel frattempo nel campo di fortuna di Kelibija al confine fra Serbia e Ungheria, un vero e proprio “bambino Quechua” sta aspettando anch’egli giorni più fortunati. Rodin (che significa “alba” in curdo) ha quattro mesi ed è nato il 26 marzo 2016 nel campo di Idomeni, proprio pochi giorni prima della fatidica chiusura del confine fra Grecia e Repubblica di Macedonia. Dopo essere stata rimandata al campo dallo staff medico dell’ospedale Kilkis poiché sostenevano che non fosse ancora pronta per partorire, la ventiquattrenne Amina (nella foto, con Rodin) ha dato alla luce Rodin nella tenda in cui era si era accampata con suo marito e altre due figlie. Rodin aveva meno di tre mesi quando la sua famiglia ha dovuto iniziare il lungo e insidioso viaggio attraverso la Macedonia. “Ero malata e, quando sono crollata e non potevo più camminare, i trafficanti hanno lasciato indietro me e la mia famiglia”, ricorda Amina. Hanno trovato da soli una via verso il confine serbo dopo un lungo percorso di dieci giorni. L’intera famiglia è ora accampata a ridosso del filo spinato che separa Serbia e Ungheria, proprio accanto al cancello speciale che permette ogni giorno a 15 rifugiati di superare la frontiera e di essere trasportati in pullman a un altro campo profughi in Ungheria. Nella fretta di lasciare la loro città natale, Kobane, in Siria, la famiglia di Amina non ha preso i propri documenti di identità, il che rende il loro potenziale ricollocamento ancora più difficile.

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