“Sostenibilità” è la parola magica del marketing contemporaneo. Entrando in un supermercato, molti di noi preferiranno un detersivo con un’etichetta verde, con aggettivi come “bio”, “ecologico”, “riciclato”, rispetto a un prodotto con un’etichetta generica, costo permettendo.
Così succede anche nel mondo della finanza, dove negli ultimi anni è stato alto l’interesse verso gli investimenti Esg (Environmental, Social, and Governance). Secondo l’analisi Assogestioni-Censis, quasi due terzi degli investitori italiani sono interessati a prodotti che tengono conto del proprio impatto ambientale, sociale e di buone politiche. Le società di gestione del risparmio (Sgr) l’hanno capito e hanno presto adattato la propria offerta.
Ma se l’etichetta verde la mette chi vende il detersivo, come sappiamo cosa lo differenzia da un prodotto generico? Se i parametri di sostenibilità sono poco chiari, come possiamo sapere quanto un fondo d’investimento sia realmente “verde”?
I prodotti Esg, come già evidenziato da IrpiMedia, sono spesso regolati da normative poco chiare che finiscono per inquinare anche i migliori intenti. Per capirlo, abbiamo analizzato il principale attore del mercato italiano: Eurizon, la divisione di asset management del gruppo Intesa Sanpaolo.
Eurizon Capital Sgr, si piazza al primo posto per patrimonio gestito in fondi italiani, con un patrimonio totale gestito pari a 394,6 miliardi di euro alla fine del 2024. La Sgr ha una presenza internazionale rilevante, con sussidiarie distribuite in tutta Europa, nel Regno Unito, in Cina e a Hong Kong.
Intesa Sanpaolo ed Eurizon non primeggiano solo in quanto a volumi, ma anche per la loro performance non finanziaria, qualificandosi come enti responsabili e attenti alle questioni Esg. Secondo il Responsible Investment Brand Index 2025, Eurizon è tra le 10 migliori Sgr in Europa meridionale (su 29 totali analizzati).
Anche Intesa Sanpaolo ha ricevuto diversi riconoscimenti per la sostenibilità. Ad esempio nel 2025 era tra le 100 società più sostenibili a livello globale secondo la lista Corporate Knights. Inoltre, è l’unica banca italiana inclusa nei Dow Jones Best-in-Class Indices.
Tuttavia, riconoscimenti e classifiche non bastano da soli a chiarire quanto un fondo sia effettivamente sostenibile: è fondamentale capire come funziona la classificazione dei fondi verdi a livello europeo.
In base alla normativa europea, la cosiddetta Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr), dal marzo 2021 tutti i fondi di investimento si inseriscono in una di tre categorie, in base al grado di attenzione ai parametri Esg:
- I fondi articolo 6, che non tengono conto di tali parametri;
- I fondi articolo 8, o fondi light green, che promuovono caratteristiche Esg nei loro investimenti pur non avendo obiettivi specifici;
- I fondi articolo 9, i dark green, hanno obiettivi specifici di investimento sostenibile.
L’Sfdr è un regime di trasparenza, non di etichettatura, e lascia quindi ampio spazio agli asset manager nella scelta dei propri parametri. Se nel caso dei fondi dark green la normativa è più stringente, per quanto riguarda fondi light green i margini delle Sgr sono decisamente più larghi.
Secondo l’ultimo report sulla sostenibilità di Eurizon, i prodotti articolo 8 e 9 dalla società sono aumentati a un totale di 350 nel 2024, pari a 156,56 miliardi di euro di asset in gestione (in aumento rispetto ai 306 presenti nell’offerta dell’anno precedente). Di questi, 342 sono prodotti articolo 8, pari a 153,33 miliardi di euro, mentre solamente 8 prodotti si classificavano come articolo 9, pari a 3,22 miliardi di euro. La Sgr non lascia quindi molte opzioni agli investitori più attenti.
Ma non solo. Focalizzandoci sull’offerta di fondi articolo 8, che dovrebbero comunque integrare criteri Esg, emergono alcuni elementi critici.
Grazie a un database del provider London Stock Exchange Group Data and Analytics, abbiamo trovato che tra il quarto trimestre del 2023 e il primo trimestre del 2025, Eurizon Capital Sgr SpA ha investito 2,49 miliardi di dollari (2,12 miliardi di euro) provenienti da fondi articolo 8 in società fossili.
È da sottolineare una tendenza positiva, con un netto calo di tali investimenti durante il periodo. Ciononostante, solo nel primo trimestre 2025 ammontano ancora a 800 milioni di dollari (679,4 milioni di euro) di investimenti nel fossile provenienti da fondi light green.
La maggior parte di questi investimenti sono diretti a ConocoPhillips (183 milioni di dollari o 155 milioni di euro), seguita da Shell (149 milioni di dollari o 126,5 milioni di euro), Bp (105 milioni di dollari o 89 milioni di euro), TotalEnergies (59 milioni di dollari o 50 milioni di euro) ed Exxon (54 milioni di dollari o 45,9 milioni di euro).
Questi dati, seppur rappresentando una quota limitata rispetto al totale del patrimonio in gestione, sollevano interrogativi importanti sui margini di tolleranza degli asset manager in materia di sostenibilità.
Nell’informativa sulla sostenibilità di tutti i fondi light green analizzati, si specifica che la quota massima che un fondo può investire in imprese attive nel settore dei combustibili fossili è lo 0 per cento.
Alcuni fondi analizzati riescono a rientrare in queste linee guida pur investendo ancora nel fossile avendo un’esposizione (calcolata confrontando per ogni fondo il totale investito nelle società fossili e il patrimonio totale gestito dal fondo) tra lo 0,36 per cento e 0,57 per cento . Per altri fondi, risulta un’esposizione seppur bassa, superiore alla soglia preposta, tra il 2.69% e il 2.81%.
Inoltre, due delle aziende in cui risultano investimenti da parte di Eurizon, ConocoPhillips e Shell, sono anche attivamente coinvolte in progetti di estrazione da sabbie bituminose in Alberta, Canada. Le sabbie bituminose (oil sands o tar sands), sono depositi di bitume che permettono l’estrazione del petrolio, dopo diversi processi. Sono state definite “il combustibile più sporco del mondo” per il loro impatto ambientale.
Eurizon dichiara di escludere gli investimenti in emittenti coinvolti in attività di estrazione di petrolio e gas attraverso lo sfruttamento delle sabbie bituminose ma solo se questi derivano almeno il 10 per cento del proprio fatturato da tali attività. I documenti di ConocoPhillips e Shell consultati non specificano quanta percentuale del proprio fatturato derivi da questa pratica.
Solo i prodotti che dichiarano di essere allineati al Paris-Aligned Benchmark (Pab) – indice finanziario che serve da riferimento per tracciare l’allineamento di un’azienda agli obiettivi climatici così come stabilito dall’Accordo di Parigi – è richiesta esplicitamente l’esclusione di aziende legate alle fonti fossili (come carbone e lignite, combustibili petroliferi o gas) o altamente impattanti.
Secondo le nuove linee guida dell’Esma (European Securities and Markets Authority) le stesse esclusioni si applicano ai prodotti che utilizzano termini quali “Esg” oppure “sostenibilità” nel proprio nome. Dei fondi Eurizon italiani analizzati che a oggi continuano a investire nel fossile, 8 contengono nel nome termini quali “Esg”, “Net Zero”, “Social” e “Sustainable”, rimandando alla sostenibilità ambientale o sociale (anch’essa inclusa nelle linee guida Esma).
“Ci sono casi in cui piuttosto che disinvestire dall’oil & gas si preferisce mantenere l’investimento per poter proseguire il dialogo con le aziende e poter influenzare le loro strategie di lungo termine, in un’ottica di transizione ecologica”, specificano anche gli esperti.
Nonostante queste criticità, Eurizon dichiara di puntare su una strategia a lungo termine orientata alla neutralità climatica. Eurizon aderisce infatti alla Net Zero Asset Managers Initiative, una coalizione internazionale di gestori di fondi che si impegnano a raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050, orientando gli investimenti verso questo obiettivo.
I firmatari si obbligano a collaborare con i propri clienti per decarbonizzare progressivamente tutti gli asset gestiti, fissando obiettivi intermedi da aggiornare ogni cinque anni. In linea teorica, la quota di patrimonio gestita secondo criteri di neutralità climatica dovrebbe aumentare nel tempo fino a coprire il 100 per cento. Dal gennaio 2025, l’iniziativa è in fase di revisione per assicurarsi che rimanga “adeguata allo scopo nel nuovo contesto globale”, alla luce degli sviluppi negli Stati Uniti e dell’uscita di importanti player, come JP Morgan, dall’iniziativa.
Per questo, le attività di monitoraggio dell’attuazione e della rendicontazione da parte dei firmatari sono sospese e dal sito web sono state rimosse la dichiarazione di impegno e l’elenco dei firmatari. Nel presentare il proprio approccio agli investimenti responsabili, Eurizon dichiara di aver definito quattro obiettivi per raggiungere la neutralità climatica.
Il primo riguarda l’individuazione del cosiddetto “Portafoglio in scope”, ovvero quella parte del patrimonio che sarà effettivamente gestita con l’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050. Questo portafoglio, tuttavia, definito nel 2021, rappresentava solo il 15 per cento del patrimonio gestito, pari a circa 67,5 miliardi di euro.
In altre parole, solo una parte minoritaria degli asset gestiti è effettivamente vincolata all’obiettivo di neutralità climatica entro il 2050, mentre per il restante 85 per cento Eurizon si limita a un generico impegno “a raggiungere nel tempo fino al 100% dei propri attivi”.
Un tentativo di fare chiarezza su cosa significhi davvero “sostenibile” c’è stato. Uno dei pilastri della normativa europea in materia è la cosiddetta Tassonomia, introdotta a partire dal 2020 con l’obiettivo di definire in modo univoco e standardizzato quali attività economiche possano essere considerate sostenibili.
Nel proprio documento di Sintesi della Politica di Sostenibilità, Eurizon cita la Tassonomia come parte del quadro normativo su cui basa le proprie politiche ambientali. Tuttavia, tutti i fondi Eurizon analizzati dichiarano un allineamento alla Tassonomia pari allo 0 per cento.
La documentazione specifica che questo non esclude la possibilità di futuri investimenti in attività ecosostenibili, ma non prevede alcuna soglia minima obbligatoria.
Cosa non ha funzionato? Il limite, in questo caso, non è solo di Eurizon, ma riguarda gran parte del settore europeo del risparmio gestito, che spesso preferisce dichiarare un allineamento nullo per evitare problemi di rendicontazione o sanzioni dovute a margini interpretativi della normativa.
Secondo Roberto Grossi, vicedirettore generale di Etica Sgr, dopo un iniziale slancio, la commissione europea sembra essersi smarrita lungo il percorso. Le due normative cardine (la Tassonomia e la Sfdr) non sono ben coordinate tra loro e già oggetto di revisione. Data l’incertezza normativa, gli operatori finanziari sono spinti “a mostrare cautela in un contesto che potrebbe rapidamente cambiare”, dichiara il Forum per la Finanza Sostenibile.
A complicare ulteriormente il quadro c’è la recente approvazione del pacchetto Omnibus, che prevede un alleggerimento degli obblighi di rendicontazione per le piccole e medie imprese. Questo, osserva Grossi, genera una contraddizione strutturale: “Si chiede giustamente agli asset manager di prendersi degli impegni quando vogliono investire in modo green, ma non si pretende lo stesso livello di trasparenza dalle imprese”, spiega. “Se le aziende non sono obbligate a fornire quei dati, come posso io verificare davvero la sostenibilità di un investimento?”.
A questa incoerenza si sommano ulteriori difficoltà: i dati sulla sostenibilità sono spesso frammentari o difficili da raccogliere, persino per le stesse aziende, anche a causa di catene di fornitura globalizzate soggette a normative molto diverse tra loro.
Poiché la normativa europea non ammette stime o approssimazioni, molte Sgr preferiscono quindi dichiarare un allineamento pari a zero, per non esporsi a rischi di greenwashing.
Intesa Sanpaolo non ha risposto alla nostra richiesta di commento.
👉L'Articolo originale su IrpiMedia
Questo articolo è pubblicato in collaborazione tra IrpiMedia e Voxeurop; fa parte di un ciclo di inchieste sulla finanza verde e realizzato con il sostegno dello European Media and Information Fund (Emif). La responsabilità di qualsiasi contenuto sostenuto dal European Media and Information Fund è esclusivamente degli autori e non riflette necessariamente le posizioni dell’EMIF e dei partner del Fondo, la Calouste Gulbekian Foundation e l’European University Institute.

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Perché gli eco-investitori si ritrovano a finanziare le “Big Oil”? A quali stratagemmi ricorre la finanza per raggiungere questo obiettivo? Come possono proteggersi i cittadini? Quale ruolo può svolgere la stampa? Ne abbiamo discusso con i nostri esperti Stefano Valentino e Giorgio Michalopoulos, che per Voxeurop analizzano i retroscena della finanza verde.
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