Da Roma a Budapest, da Parigi a Washington, la destra radicale parla sempre più la stessa lingua. È la lingua del risentimento, del vittimismo e della rivalsa, mescolata a un racconto di forza e sovranità nazionale che ambisce a plasmare l’immaginario politico dell’Occidente. Ma dietro l’apparente compattezza dell’“internazionale nazionalista”, i discorsi si intrecciano, le alleanze si contraddicono e le egemonie restano più proclamate che reali.
Dall’incontro intitolato “Egemonia”, al quale partecipavano la giornalista americana Rachel Donadio, lo storico britannico John Foot e il corrispondente francese Allan Kaval, moderato dal giornalista italiano Marco Contini (La Repubblica) e che si è tenuto durante il festival di Internazionale a Ferrara, emerge una diagnosi comune: la nuova destra europea non è più un fenomeno marginale o folcloristico. È un ecosistema politico e mediatico che si alimenta di miti e simboli condivisi, e che punta a riscrivere il linguaggio della democrazia stessa.
Il vittimismo come leva di potere
John Foot invita a non leggere il presente con le lenti del passato remoto, ma con quelle degli anni Settanta e Ottanta, da cui proviene gran parte della formazione politica di Giorgia Meloni. “A Meloni non interessa il fascismo storico”, spiega, “perché la sua cultura politica nasce nel dopoguerra, dentro la democrazia”. Tuttavia, prosegue, quella cultura conserva una memoria forte: quella di una comunità che si sente vittima.
È una memoria costruita su episodi come la strage di Primavalle o gli omicidi di militanti neofascisti, percepiti come simboli di ingiustizia e persecuzione. “A quelli di Meloni interessa moltissimo quel vittimismo”, osserva Foot, “noi siamo stati esclusi, noi siamo stati uccisi, non c’era giustizia per noi”. Una visione che spiega la “tolleranza” verso rituali e commemorazioni nostalgiche: “Lei non critica mai quella cosa lì, perché fa parte della sua formazione culturale”.
Il meccanismo si ripete su scala globale. Per Rachel Donadio, lo stesso schema è visibile negli Stati Uniti: “Quando Donald Trump è sopravvissuto all’attentato [il 13 luglio 2024] ed è diventato un miracolato, ha acquisito un potere religioso che non aveva prima”. Anche qui, il leader si presenta come bersaglio di un mondo ostile: l’élite, i giudici, i giornalisti, i migranti. “Il presentarsi come vittime è stato storicamente il tratto comune delle destre”, abbonda Marco Contini. “Quasi che come presentarsi come cattivi non stia bene, non è educato e quindi bisogna dire che noi siamo le vittime”.

Questo vittimismo — reale o costruito — ha una funzione precisa: spostare l’attenzione dal governo dei fatti alla difesa dell’identità. “Cercano di creare consenso diminuendo lo spazio per il dissenso”, nota Donadio. La retorica del “noi contro loro” diventa strumento di potere, non di emancipazione.
L’“internazionale nazionalista”: un paradosso solo apparente
Un altro tratto comune, sottolineato da più voci, è la rete transnazionale che unisce le destre europee e americane. È un’“internazionale nazionalista”, apparentemente contraddittoria, ma in realtà coerente nel metodo.
Allan Kaval osserva che in Francia, l’Italia di Meloni è diventata un modello “strumentale”: “Non c’è niente da vedere con la realtà. È un modo di usare l’Italia per portare avanti un discorso proprio francese”. Le copertine delle riviste conservatrici francesi parlano di “modello Meloni”, esaltandone la stabilità e la credibilità finanziaria. Ma, aggiunge, “a queste riviste l’Italia non interessa: è solo strumentale”.
Kaval cita anche la partecipazione di Giorgia Meloni a un comizio della sua alleata francese Marion Maréchal, in cui la premier italiana ha evocato persino figure americane come Charlie Kirk, giovane influencer della destra cristiana ucciso in circostanze violente e trasformato in icona globale. “Kirk è ormai un martire”, dice Kaval, “una figura che appartiene alla fede”.
La vicenda Kirk, aggiunge, ha avuto eco “in tutti questi paesi: in Polonia, in Ungheria, in Austria, in Francia”. In ciascuno, la narrazione è la stessa: la destra si presenta come vittima di una persecuzione globale, e il martire diventa simbolo di resistenza. È una costruzione comune, un linguaggio condiviso che attraversa le frontiere.
Donadio parla di “un’Europa delle destre che si vive come sottomessa a un nuovo regime in America”. Non un vero complotto, ma un ecosistema culturale e mediatico in cui leader e movimenti si citano, si imitano, si legittimano a vicenda. Meloni con Viktor Orbán e il partito spagnolo Vox, Marine Le Pen con Trump e Nigel Farage, Matteo Salvini con l’estrema destra tedesca. Un mosaico che funziona finché resta nemico comune: “Il nemico sarebbe l’immigrato”, dice Foot. “Quello che li tiene insieme è la paura dell’altro”.
Egemonia culturale o illusione di egemonia?
La parola “egemonia” — al centro della conversazione— resta la più controversa. Esiste davvero una “egemonia culturale” della destra? O è un fenomeno sovrastimato, un mito utile alla narrazione stessa delle destre?

Foot, che, da storico, guarda alla lunga durata, parla di continuità più che di svolta: “Sono scettico sull’idea che ci sia una fase nuova. Vedo tantissima continuità nell’uso del potere”. Meloni, osserva, governa “come un partito politico, non come un movimento rivoluzionario”. Anche Donadio, pur attenta ai rischi di una deriva illiberale, nota che la strategia del governo è “occupare il potere per stare al potere”, non instaurare un regime.
Lo conferma un episodio concreto: “Cosa ha fatto? Niente, zero, nessuna riforma strutturale”, sintetizza Foot. Le riforme annunciate — premierato, giustizia, cultura — restano in sospeso o ridimensionate.
Contini aggiunge una nota amara: l’Italia ha “una certa incapacità strutturale di autoritarismo” un tratto storico che affonda nella fragilità del potere politico. Ma l’inerzia può essere un pericolo: “Passo dopo passo, goccia dopo goccia, stiamo diventando una nazione disinteressata ai propri destini”.
Kaval coglie il nodo: più che egemonia, quella attuale è una contro-egemonia frammentata, che si nutre delle debolezze del sistema mediatico e della frammentazione sociale. “Se invece della società civile abbiamo un arcipelago di bolle”, chiede Donadio, “come si costruisce l’egemonia culturale?”. Le piattaforme e gli algoritmi moltiplicano le “micro-comunità”, ma impediscono la costruzione di un discorso comune.
Il risultato è una “guerra culturale di movimento”, come l’ha definita Kaval: fluida, emotiva, fondata più sull’indignazione che sulla persuasione. Non un’egemonia nel senso gramsciano — cioè una capacità di guidare il consenso attraverso la cultura — ma un conflitto permanente per spostare il baricentro del dibattito.
Narrazioni e realtà: il corto circuito delle destre
Dietro la retorica vincente delle destre, i fatti spesso raccontano un’altra storia.
L’Italia non è il “modello di stabilità” descritto dalla stampa conservatrice francese: il governo Meloni, pur saldo, non ha varato alcuna riforma strutturale, come già sottolineato da John Foot. L’occupazione delle posizioni di potere — dal Museo dell’arte del XXI secolo al Ministero della Cultura — è letta più come gestione di continuità che come rivoluzione. “Servirebbe un esercito che non hanno”, ammette lo studioso di destra Marco Tarchi, citato da Kaval.
La presunta egemonia culturale è, dunque, più mediatica che sostanziale. Kaval nota che persino operazioni di propaganda come la “narrazione Kirk” trovano poca risonanza reale: “Noi siamo un pochino indifferenti a questa vicenda. Non è la nostra”.

Eppure, queste stesse narrazioni hanno effetti politici. Il linguaggio del martirio, del patriottismo assediato, dell’Europa “decadente” serve a spostare i confini morali del dibattito. Kaval avverte che molti leader della destra “vogliono farci credere che vogliano dibattere, ma in realtà vogliono cambiare la base di valori delle nostre società”, in particolare “il valore dell’antifascismo” che fonda la democrazia italiana ed europea.
Un’operazione simile avviene nei paesi dove la destra è all’opposizione. In Francia la retorica del “modello Meloni” serve a legittimare l’unione delle destre intorno a Marine Le Pen e Marion Maréchal. In Germania, l’AfD si presenta come difensore della libertà d’espressione contro la “dittatura del politicamente corretto”. Nel Regno Unito Nigel Farage e il suo Reform UK danno voce al sentimento di coloro che dicono “noi siamo madri, siamo preoccupate, abbiamo paura”, come lo definisce Foot, che però, osserva, allo stesso tempo “rifiutano l’etichetta di estrema destra”. Per questo, aggiunge, occorre capire perché scendono in piazza rispondendo all’appello di Farage, piuttosto che chiuderli in categorie che magari “non hanno più senso”.
Tutti però condividono una caratteristica delle narrazioni di estrema destra: trasformare il malessere sociale in identità politica, e l’identità politica in racconto di persecuzione.
L’Europa di domani: un’unione separata in casa
Il rischio, come emerge dalla discussione, è che l’Unione Europea si ritrovi presto governata da una maggioranza di governi nazionalisti. Kaval mette in guardia: “Questi partiti non vogliono distruggere l’Unione Europea. Vogliono cambiarla, farne qualcosa d’altro”: meno solidale, meno autonoma dagli Stati Uniti, più chiusa sul fronte dei diritti.
Il perno del progetto resta la gestione dell’immigrazione: “Nessuno potrebbe più chiedere asilo in nessun paese dell’Europa”, avverte Foot, immaginando una “deportazione di massa” simile ai respingimenti statunitensi.
Ma anche qui il mito incontra i limiti della realtà. Dopo il trauma della Brexit, spiega Foot, “l’esempio non è stato bellissimo per nessuno: abbiamo vaccinato tutti contro l’uscita”. Le destre, quindi, non puntano più all’uscita dall’Unione, ma al suo svuotamento interno: un’Europa di “separati in casa”, unita solo da nemici comuni – a cominciare dagli immigrati.
Le parole che mancano
“Abbiamo bisogno di parole nuove per descrivere questa realtà”, dice Kaval, rispondendo a una domanda dal pubblico. Parole che non siano quelle del Novecento — fascismo, comunismo, destra, sinistra — ma che aiutino a leggere la fluidità del presente.
Il linguaggio politico, osserva, è parte del problema: “Molti di questi leader vogliono ridefinire la base morale delle nostre società”, ripete, “non semplicemente contestare il sistema”. È una “lotta semantica” in cui la scelta delle parole decide i confini del pensabile.

Foot racconta di un dialogo con un editor americano: “Mi ha chiesto perché la chiamo far right [estrema destra] e non semplicemente right [destra]. Ho risposto: perché viene da una tradizione postfascista. Ma lui non capiva. È difficile spiegare l’Europa al pubblico americano”.
La difficoltà di nominare le cose — “possiamo usare la parola fascismo?” si chiedeva più volte Contini — diventa essa stessa parte della storia. Come nota una partecipante dal pubblico, forse “non ci accorgiamo che ci stanno costringendo a ridefinire il linguaggio”.
Oltre le narrazioni
La nuova destra europea — vittimista, mediatica, transnazionale — è oggi il laboratorio politico del continente. Come il fascismo e il populismo prima di essa, nasce in Italia ma si adatta alle condizioni globali del XXI secolo: social network, crisi climatica, disuguaglianze, migrazioni.
Eppure, dietro la potenza della retorica, restano fragilità strutturali: poche riforme, nessun vero consenso sociale, un linguaggio che convince più nei media che nella vita quotidiana.
Forse, come dice Foot, la vera novità è la continuità: “L’Italia è ancora il laboratorio politico d’Europa, ma non sempre di progresso”. E come aggiunge Kaval, la sfida più grande non è più distinguere la destra dalla sinistra, ma capire “chi vuole emancipare e chi vuole dominare”.

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