Europei, ma non senza nazione

L’Europa è un impero, sostiene lo storico Thierry Baudet. Non c'è niente di male, risponde il filosofo Roger Scruton, purché non denigri le nazioni che governa, perché è da lì che nasce l’attaccamento a una comunità.

Pubblicato il 10 Luglio 2012 alle 10:50

Nel suo libro e nel suo articolo su Nrc Handelsblatt della scorsa settimana Thierry Baudet ha scritto parole pesanti e controverse. Ma su una cosa ha ragione: il progetto d’integrazione europea si basa sulla convinzione che lo stato nazione e l’autodeterminazione nazionale siano state le cause principali delle guerre che hanno devastato l’Europa.

Per questo motivo l’integrazione è stata concepita in termini monodimensionali, come un processo verso un’unità sempre maggiore guidato da una struttura di comando centrale. A ogni aumento del potere del centro deve corrispondere una diminuzione del potere nazionale.

In altre parole, il processo politico europeo è stato indirizzato fin dall’inizio. Ma questa impostazione non è stata decisa dai popoli d’Europa. Al contrario, ogni volta che ne hanno l’occasione gli europei la rifiutano nettamente. È per questo che qualcuno fa di tutto per impedire che abbiano la possibilità di votare. Il processo va avanti verso la centralizzazione, il controllo dall’alto verso il basso, la dittatura di burocrati e giudici non eletti, la cancellazione delle leggi approvate da parlamenti rappresentativi, i trattati costituzionali siglati senza il minimo input da parte del popolo e una moneta imposta e associata a un pesante debito che non si sa bene chi dovrà sostenere.

L’Europa avanza verso una forma di governo imperiale ed è sempre più chiaro che l’alternativa allo stato nazione non è l’illuminismo ma l’impero. Soltanto un ostacolo si frappone a questa marcia: il sentimento nazionale dei popoli europei.

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Come cittadino inglese e amante della civiltà romana non sono affatto contrario al concetto di impero. Ma è importante riconoscere quali sono le sue conseguenze e distinguere tra l’impero buono e quello cattivo. A mio parere l’impero buono protegge i costumi e gli interessi locali sotto la volta della civilizzazione e delle leggi, mentre quello cattivo cerca di cancellare i costumi e gli interessi rivali sostituendoli con un potere centralizzato e senza legge.

L’Unione europea presenta elementi di entrambe le forme di impero, ma ha un difetto enorme: non ha mai cercato l’approvazione del popolo. Penso che l’Europa è (e lo è sempre stata) una civiltà di stati nazione fondata su una particolare fedeltà pre-politica, che privilegia il territorio e i costumi locali rispetto alla dinastia e alla religione. Date voce al popolo e il popolo esprimerà la sua lealtà su questi termini. In questo momento la fedeltà incondizionata della gente (la fedeltà è legata all’identità, non a un accordo) mantiene ancora una forma nazionale.

La liturgia della denuncia

Tuttavia alla classe politica europea questo non piace, e dunque ha deciso di demonizzare l’espressione diretta dei sentimenti nazionali. Se difendete Giovanna d’Arco e il paese reale, lo scettro e San Giorgio, le tetre foreste di Lemmenkäinen e i “veri finlandesi” che la abitano o addirittura Henk e Ilsa sarete sicuramente chiamati fascisti, razzisti ed estremisti. La classe politica europea mette in atto regolarmente una sorta di liturgia della denuncia, disprezzando i sentimenti locali da cui in realtà dipende segretamente.

La verità è che per l’europeo ordinario l’identità nazionale è l’unica ragione pubblicamente disponibile e condivisa in grado di giustificare un sacrificio per la causa comune, l’unico obbligo della sfera pubblica che non ha nulla a che fare con ciò che può essere venduto e comprato. Le persone non votano per riempirsi il portafoglio, ma per decidere da chi vogliono essere governate e anche per proteggere la loro identità condivisa da chi ne è estraneo e cerca di saccheggiare un patrimonio che non gli appartiene.

Di per sé la lealtà alla nazione non ha niente a che vedere con il razzismo o il fascismo: è l’espressione primaria dell’attaccamento al territorio e alla comunità che lo popola. La crisi attuale ci ha fatto capire che quando le cose vanno male i politici ci chiedono sacrifici e si aspettano che li facciamo. Ma come è possibile sacrificarsi se non esiste un sentimento di appartenenza, e come può esistere un sentimento di appartenenza se non ci sono confini per distinguere “loro” da “noi”?

Dovremmo ringraziare Thierry Baudet per aver sollevato questi interrogativi e per aver aperto un dibattito di cui nei Paesi Bassi c’è un grande bisogno, come d’altronde nel Regno Unito e in tutti gli altri paesi europei.

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