Jürgen Habermas: per una vera Europa democratica

La crisi dell'eurozona rende necessaria una maggiore integrazione politica tra i paesi dell'Unione europea. Tuttavia, le idee dei leader del Vecchio continente non contemplano quella che dovrebbe essere la priorità della politica comunitaria: il benessere dei cittadini nella democrazia. Il commento del sociologo Jürgen Habermas.

Pubblicato il 27 Ottobre 2011 alle 07:41

L'attuale crisi economica esige la massima attenzione. Ma al di là dei problemi contingenti, i leader politici non dovrebbero dimenticare i difetti strutturali dell'Unione monetaria, che non potranno essere eliminati senza un'adeguata unione politica. All'Unione europea di oggi mancano le competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che sul piano della competitività sono ancora troppo eterogenee.

L'ennesimo "patto per l'Europa" non ha fatto altro che accentuare un vecchio difetto: gli accordi non vincolanti tra i capi di governo sono inefficaci o antidemocratici. Per questo motivo devono essere sostituiti al più presto da istituzioni che possano prendere decisioni comuni e incontestabili.

Il governo federale tedesco è diventato il motore di una desolidarizzazione che coinvolge tutta l'Europa, perché da troppo tempo ignora l'unico elemento in grado di far progredire il Vecchio continente, ossia "Più Europa", secondo la laconica definizione della Frankfurter Allgemeine Zeitung.

Una paralisi generale

Tutti i governi coinvolti nel progetto europeo si ritrovano ormai sperduti, paralizzati di fronte a un dilemma: da una parte i diktat delle grandi banche e delle agenzie di rating, dall'altra la paura di una delegittimazione da parte della popolazione esasperata. Le soluzioni temporanee continuamente proposte tradiscono la mancanza di una prospettiva di più ampio respiro.

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La crisi finanziaria iniziata nel 2008 ha fossilizzato il meccanismo di indebitamento pubblico e a farne le spese saranno le generazioni future. In questo momento non si capisce come le politiche di austerity - difficili da imporre sui vari fronti nazionali - potranno mai coniugarsi nel lungo periodo con il mantenimento di uno stato sociale efficace.

Considerata la gravità del problema, ci si aspetterebbe che i politici si preoccupassero di mettere le carte in tavola per spiegare alla popolazione il rapporto tra i costi a breve termine e i vantaggi futuri di questo sistema, considerando che i popoli hanno il diritto di comprendere lo storico significato del progetto europeo.

E invece i leader del Vecchio continente scelgono di sottomettersi a quel populismo che loro stessi fomentano, tenendo la gente all'oscuro di una realtà complessa e impopolare. Di fronte all'unificazione economica e politica dell'Europa, i leader del Vecchio continente sembrano trattenere il fiato e nascondere la testa sotto la sabbia.

L'errore dei populisti di destra

A cosa è dovuta questa paralisi? Una teoria nata nel diciannovesimo secolo impone una risposta legata al demos: non esiste un popolo europeo e per questa ragione qualsiasi forma di unione politica sarà sempre utopistica. A questa interpretazione, però, voglio contrapporne un'altra: la storica frammentazione politica dell'Europa (e del mondo) è in contraddizione con la crescita sistemica di una società globale multiculturale, ed è un ostacolo per tutti i processi di civilizzazione giuridica e costituzionale delle potenze politiche e sociali.

Il fatto che finora l'Ue sia stata guidata e monopolizzata dalle élite politiche ha prodotto una pericolosa asimmetria: da una parte la partecipazione democratica dei popoli per fare in modo che i loro governi vadano a Bruxelles ad "arroccarsi" sulle proprie posizioni, dall'altra l'indifferenza e l'assenza di partecipazione dei cittadini dell'Ue al processo decisionale del Parlamento di Strasburgo.

Questa osservazione non giustifica affatto una sostanzializzazione del concetto di "popolo". Soltanto il populismo di destra continua a proiettare la caricatura dei grandi soggetti nazionali che si oppongono gli uni agli altri e impediscono la formazione di una volontà che vada oltre le frontiere.

Più i popoli nazionali se ne renderanno conto e i media evidenzieranno quanto le decisioni dell'Ue influiscono sulla nostra vita quotidiana, più crescerà la voglia dei cittadini dell'Unione di usufruire dei loro diritti democratici. Questo aspetto è diventato tangibile con la crisi dell'euro. La crisi costringe il Consiglio europeo a prendere suo malgrado delle decisioni che possono pesare in modo diseguale sui singoli bilanci nazionali.

Le zone grigie della politica europea

Dall'8 maggio 2009 il Consiglio è andato oltre un limite ben preciso prendendo decisioni cruciali per salvare alcuni paesi e modificare l'entità del loro debito pubblico. Inoltre, ha deciso di procedere sulla via dell'armonizzazione di tutto ciò che riguarda la competitività in politica economica, fiscale, del mercato del lavoro, sociale e culturale.

Una volta oltrepassato il suddetto limite si pongono questioni legate all'equità della ripartizione. Seguendo questa logica, in quanto cittadini dell'Unione, i cittadini degli stati nazionali che subiscono gli effetti della ripartizione dei carichi vorrebbero dire democraticamente la loro su ciò che i loro capi di governo decidono nell'ambito di una sorta di "zona grigia".

E invece registriamo tutta una serie di manovre dilatorie da parte dei governi e un rifiuto populista di una parte dei cittadini nei confronti del progetto europeo. Questo comportamento autodistruttivo si spiega con il fatto che le élite politiche e i media esitano a comunicare le conseguenze positive di questo progetto. Le pressioni dei mercati finanziari hanno evidenziato il fatto che in occasione dell'introduzione dell'euro è stato trascurato un presupposto economico dell’impalcatura costituzionale: l'Ue non può garantire protezioni contro la speculazione finanziaria, a meno che non si assuma ulteriori responsabilità politiche necessarie a garantire - almeno nel cuore dell'Europa, ovvero tra i membri dell’eurozona - una convergenza degli sviluppi economici e sociali.

Prove di dominio post-democratico

Tutti i protagonisti di questa evoluzione europea sanno che un simile grado di "cooperazione rafforzata" non è possibile nell'ambito dei trattati esistenti. Un "governo economico" comune, idea che piace anche al governo tedesco, avrebbe una conseguenza problematica: l'obbligo di tutti i paesi della comunità economica europea di essere competitivi si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e andrebbe così a toccare i bilanci nazionali e quindi a cozzare contro il diritto dei parlamenti nazionali in materia di bilancio.

Per evitare un gigantesco conflitto di competenze, l'unica (difficile) via da percorrere è quella di un trasferimento ulteriore di sovranità dagli stati membri all'Unione. Invece, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno trovato un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese. Personalmente sono convinto che stiano cercando di forzare il federalismo esecutivo contemplato nel trattato di Lisbona per creare un dominio intergovernativo del Consiglio europeo contrario ai principi dello stesso trattato. Un regime di questo tipo permetterebbe di imporre i diktat dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna legittimazione democratica.

In questo modo, i capi di governo trasformerebbero di soppiatto il progetto europeo nel suo contrario: la prima comunità sovranazionale democraticamente legittimata diventerebbe un'alleanza elitaria per esercitare un dominio postdemocratico. L'alternativa risiede nell’ovvia prosecuzione della legalizzazione democratica dell'Unione europea. Tuttavia, fino a quando continueranno a svilupparsi le disuguaglianze sociali ed economiche tra stati membri poveri e stati membri ricchi, non sarà possibile cementare la solidarietà europea.

L'Unione deve garantire quella che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca definisce (art.106 comma 2) "l'omogeneità delle condizioni di vita". Questa "omogeneità" è legata a una vita sociale accettabile, basata sull'equa ripartizione, non a un livellamento delle differenze culturali. È necessario attuare un'integrazione politica basata sul benessere sociale, in modo che la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della "vecchia Europa" possano essere protette dall’appiattimento di una globalizzazione sempre più veloce. (traduzione di Andrea Sparacino)

*Questo articolo è tratto dal saggio di Jürgen Habermas "Sulla costituzione europea" (ed. Suhrkamp, 2011), che in Italia sarà pubblicato da Laterza.

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