La cura della concorrenza

Dopo i tagli e l'austerity, il governo Monti passa alla "fase 2": liberalizzazioni e apertura del mercato dei servizi. Una svolta necessaria ma non priva di rischi.

Pubblicato il 26 Gennaio 2012 alle 15:12

Si avvicina la “Fase 2” e si parla di liberalizzazioni. L’orario di apertura dei negozi è stato già liberalizzato. Si preannuncia la rimozione di molti vincoli amministrativi all’entrata in vari settori oggi regolamentati: farmacie, taxi, edicole, professioni e così via. Una grande ventata di concorrenza potrebbe investire l’Italia.

Si è creata in Italia una dicotomia tra i settori protetti e i settori esposti alla concorrenza internazionale, in particolare alla concorrenza proveniente dai produttori localizzati nei paesi emergenti come Cina, India, Indonesia, Brasile etc. I settori aperti, in sostanza la quasi totalità dell’industria manifatturiera e alcuni segmenti del terziario (complessivamente si parla di tradables) negli ultimi venti anni hanno conosciuto un cambiamento drammatico: pressione fortissima sui prezzi, aumento dei competitori sia sui mercati stranieri sia sul mercato italiano, necessità di riorganizzare l’impresa, di ridisegnare la catena produttiva, obbligo di essere efficienti e di essere innovativi.

Basta fare un giro per i distretti industriali italiani per capire quanto sia difficile sopravvivere sul mercato, ogni giorno, con una concorrenza internazionale così feroce.

Vi sono d’altro lato, fette importanti di economia italiana che non sono soggette alla concorrenza cinese o brasiliana. Si tratta in generale dei settori non-tradables, e questi sono, in generale, molti servizi.

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Quello che si pone è quindi un problema di disparità tra chi è soggetto alla concorrenza internazionale e chi invece ne è protetto. Pensiamo alle migliaia di operai che hanno perso il lavoro per le difficoltà di competizione delle imprese manifatturiere, pensiamo alle centinaia di imprenditori che si sono tolti la vita, pensiamo a come si siano ridotti i salari reali nei settori esposti alla concorrenza estera, pensiamo a quanto sia duro restare attivi se si deve competere in mercati così competitivi come quelli industriali. D’altro lato, i redditi dei lavoratori autonomi sono cresciuti di più dei redditi dei lavoratori impiegati nei settori aperti alla concorrenza.

E’giusto che ci sia chi può fissare prezzi elevati solo perché ha avuto una licenza e chi invece non può farlo perché è soggetto alla concorrenza cinese o indiana rischia di fallire?

E’giusto che un giovane laureato con 110 e lode in ingegneria guadagni 1.600 euro al mese mentre un laureato in legge che faccia il notaio possa guadagnarne 5.000 o 7.000 al mese?

E’giusto che un taxista (lavoro per il quale non serve una qualificazione specifica ma basta solo la patente di guida) guadagni 3.500 o 5.000 euro al mese mentre un operaio metalmeccanico ne guadagni solo 1.150?

La seconda questione è che si liberalizza per far scendere le tariffe, per far diminuire le rendite di chi ha licenze. Più concorrenza vuol dire più attenzione per il cliente finale, prezzi più bassi, più innovazione, servizio migliore. Insomma con le liberalizzazioni si vuole tutelare il consumatore finale. E questo è giusto.

Non solo. Se si liberalizzano gli orari di apertura, ad esempio, è chiaro che si favorisce la grande distribuzione a scapito del piccolo esercizio. Se liberalizziamo le licenze dei taxi è chiaro che si innesca un processo di cambiamento del settore. Se andate a New York potete scoprire facilmente che la quasi totalità dei taxisti è costituita da immigrati di prima generazione. A Washington ad esempio moltissimi sono africani appena arrivati negli Usa. Esistono nelle città americane società che sono proprietarie delle licenze e delle vetture e i taxisti sono dei dipendenti pagati poco. Le economie di scala che si possono realizzare in questo modo, ad esempio, nell’acquisto e nella manutenzione delle vetture favorisce le tariffe basse.

Ma siamo sicuri che vogliamo una trasformazione così profonda dal punto di vista sociale? E cosa dire poi dei legittimi interessi di chi ha comprato la propria licenza di taxi pagando 200.000 euro e che dopo la liberalizzazione si ritrova con una licenza che ha perso molto del valore?

Certo l’operaio metalmeccanico che ha perso il lavoro sta molto peggio, così come il giovane ingegnere che ha studiato cinque anni e che magari ha perso il lavoro.

Con le liberalizzazioni inoltre si intende accrescere le opportunità per i giovani che vogliano entrare in certi settori: i giovani architetti, i giovani laureati in farmacia, i giovani che vogliano fare i taxisti e così via. Rimuovere le barriere all’entrata nei settori regolamentati significa accrescere le possibilità per chi è senza lavoro.

Gli alti costi di molti servizi, dovuti alla scarsa concorrenza, sono una delle ragioni della perdita di competitività dell’industria italiana, soprattutto delle piccole imprese industriali italiane. Aumentare la concorrenza nei servizi pubblici è un modo per far scendere i costi dei trasporti, dell’energia, dei servizi legali, del credito, delle assicurazioni e quindi rendere più competitivi i prodotti italiani sui mercati internazionali.

Ma restano due questioni:

- Come gestire il passaggio da un sistema non di mercato (l’economia italiana di oggi) a un sistema aperto?

- Siamo certi che vogliamo avere anche i mutamenti sociali connessi con il passaggio a un sistema di pieno mercato?

Nel caso dei taxi una possibilità è quella di assegnare ad ogni taxista una licenza aggiuntiva e di consentirgli di venderla e di incamerarne i proventi come parziale compensazione della perdita di valore della propria licenza originaria. Ma cosa dire se i piccoli esercizi chiudono progressivamente e il volto delle città italiane cambia profondamente?

I taxisti non vanno demonizzati così come i piccoli bottegai. Le loro paure vanno comprese. Insomma non è tutto bianco e nero come a volte si vuole far credere. I problemi sono complessi e le risposte devono essere articolate. Tutto il contrario di ciò che la “politica spettacolo” ha fatto negli ultimi 20 anni.

Reazioni

Paralisi e disagi

Negli ultimi giorni diverse categorie professionali coinvolte dalle misure del governo sono scese sul piede di guerra, scrive La Repubblica. A cominciare dai camionisti, che hanno bloccato le autostrade per protestare contro l'aumento del prezzo del gasolio. In diverse città cominciano a scarseggiare i prodotti alimentari, mentre numerose fabbriche hanno interrotto la produzione per mancanza di forniture. I tassisti manifestano in tutto il paese contro la liberalizzazione delle licenze, i pescatori si ribellano all'aumento del prezzo del gasolio e il "movimento dei forconi" – che raccoglie agricoltori, artigiani, studenti e ndipendentisti – si sta allargando in Sicilia e Sardegna.

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