Per i giovani, la vita privata esiste solo se è online. © Sean Murphy

La privacy è da vecchi

Quanto controllo dovremmo avere sui dati personali in rete? L'editorialista David Aaronovitch sostiene che c'è un gap generazionale anche nella percezione della privacy. 

Pubblicato il 3 Marzo 2010 alle 17:33
Per i giovani, la vita privata esiste solo se è online. © Sean Murphy

Non molto tempo fa discutevo animatamente con un'attivista dei diritti umani. L'argomento era la privacy. La mia interlocutrice sosteneva che la privacy è un bisogno innato del genere umano. Al contrario io affermavo che si trattasse di un concetto determinato dalla cultura di un popolo. Tanto per essere chiaro, provate ad immaginare le latrine comuni di Pompei e trasferitele in un ufficio moderno.

Il punto centrale della discussione era la differenza generazionale nel bisogno di privacy in conseguenza del successo dei social network tra le generazioni più giovani. Quando ero adolescente non dicevo niente ai miei genitori, e a tutti gli altri ancora meno. Poteva capitare che qualche ragazza si facesse fotografare a seno scoperto durante un festival rock, o che qualcuno venisse immortalato a fumare uno spinello da qualche parte. Nel complesso però, lontano dalle situazioni limite, la vita privata di un ragazzo era inaccessibile a occhi indiscreti. I miei figli sembrano invece assolutamente a loro agio sapendo che la loro madre può controllarne la vita sociale attraverso Facebook. In generale, sembra che non gli interessi essere esposti. Dopo aver faticato a lungo per crearsi un'identità pubblica vogliono essere visti. Almeno fino a quando tutto va per il verso giusto.

Guardare il profilo Facebook prima dei colloqui di lavoro

Facebook registra 130 milioni di visite al giorno. Un dato che porta gli interrogativi sulla privacy ad un livello incomparabile con i classici problemi con la videosorveglianza o la raccolta dati governativa. Recentemente ho scoperto che alcuni college controllano il profilo Facebook dei candidati alle borse di studio prima dei colloqui individuali. In un'era di ossessivi esami attitudinali, niente di più utile del libero accesso alla reale personalità degli studenti. Non era questo che Tristram Shandy cercava nel suo viaggio?

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Avessero spiato me, prima di un colloquio, me la sarei presa eccome. Le amiche universitarie di mia figlia invece si dichiarano "un po' eccitate". Un'indagine europea del 2008 dimostra che il fenomeno è generalizzato. La metà dei ragazzi sono convinti di poter gestire la propria privacy in rete, ma solo un quinto di loro sente il bisogno di poter "controllare meglio la loro identità nel web". In parole povere non vogliono essere più protetti di quanto si sentano già.

Libertà o abuso?

Nel frattempo, cresce la preoccupazione sulla raccolta di dati da parte delle compagnie private. Ricevo costantemente mail da compagnie che operano nei settori che mi interessano ed onestamente non lo percepisco come un problema. Fino a quando mantengo il mio diritto a dire "no" alle offerte di un'azienda non mi sento scavalcato in nessun modo. Al contrario, il recente caso italiano del "video dei bulli" mi sembra più importante da analizzare. Tre dirigenti di Google sono stati condannati in contumacia per aver violato la privacy di un ragazzo disabile, il cui pestaggio da parte dei compagni di scuola a Torino è stato filmato e postato su Google video. Un po' ovunque ci si è affrettati a definire sbagliata la condanna: un calcio nei denti alla libertà di espressione e un pericolo per il futuro di internet. Ma provate a mettervi nei panni del ragazzo o dei suoi genitori. Sicuramente si saranno sentiti impotenti e danneggiati davanti alla diffusione del video. E allora, quanto controllo si può avere sulla propria immagine?

La reale questione riguarda il diritto al controllo della reputazione e dell'identità pubblica. Cosa vogliamo che la gente sappia di noi? Possiamo fare qualcosa per averne il controllo? Un fenomeno inedito sta prendendo piede nel web: l'immissione massiccia di dati personali falsi con l'obiettivo di invalidare ogni genere di raccolta non autorizzata. Io stesso sono stato un bersaglio occasionale di questo processo quando uno sconosciuto ha modificato la mia pagina su Wikipedia facendomi nascere in Serbia. Ad ogni modo, scherzose o maliziose che siano le incursioni, adesso so che chiunque può maneggiare come gli pare la percezione della realtà. In questo però mi sembra di intravedere una minaccia ben più grave degli attacchi alla privacy: con la scusa di salvaguardare l'intimità delle persone si rischia seriamente di eliminare il senso di verità, essenziale al funzionamento di internet. La mancanza di privacy potrà anche essere fastidiosa. La mancanza di verità è fatale. (as)

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