L’altra faccia del biodiesel

Per raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni l’Ue incoraggia la produzione e l’utilizzo di biocarburanti. Ma i danni causati dalla coltivazione della colza rischiano di superare i vantaggi.

Pubblicato il 29 Maggio 2012 alle 10:49

Tre anni fa l’Unione europea ha firmato un’intesa con cui si impegna a produrre un decimo dell’energia destinata ai mezzi di trasporto europei con fonti rinnovabili entro il 2020. Il continuo aumento di veicoli elettrici, alimentati in parte dall’energia eolica e solare, dovrebbe contribuire a raggiungere questo obiettivo.

Dopo il 2015 le vetture a idrogeno – che possono funzionare anche a “energia verde” – dovrebbero essere commercializzate in tempi rapidi. Questo dovrebbe aumentare la sicurezza energetica e ridurre le emissioni di gas serra. Ma la rivoluzione tecnologica in realtà sta andando incontro a notevoli ritardi e ancora una volta tocca in primo luogo ai biocombustibili garantire che si arrivi al traguardo prefissato.

Nonostante ciò, nella comunità scientifica e tra le organizzazioni non governative molti critici avvertono che l’energia “agricola” non presenta soltanto vantaggi. Essa contribuisce infatti all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari. I coltivatori tradizionali dei paesi in via di sviluppo sono allontanati dalle loro terre, sulle quali viene praticata l’agricoltura intensiva con pesticidi, fertilizzanti artificiali e un impatto decisamente negativo sulla biodiversità. E, soprattutto, si continuano ad abbattere le foreste tropicali.

L’Europa vuole imporre i biocombustibili nell’ottica dello sviluppo sostenibile. Secondo l’attuale legislazione le colture usate per i biocombustibili destinati ai motori europei devono garantire come minimo una riduzione del 35 per cento delle emissioni di gas serra. Non possono di conseguenza essere coltivate su lotti di foreste vergini o in altri ecosistemi pregiati, in quanto in tal caso la soglia fissata non potrebbe essere raggiunta.

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Perché allora oltre cento organizzazioni non governative di recente hanno spedito una lettera aperta per mettere in guardia la Commissione europea? La risposta è racchiusa in sole quattro lettere: Iluc, Indirect Land Use Change, ovvero “cambio di destinazione d’uso dei terreni agricoli”.

Le leggi in vigore permettono di seminare colza nei campi europei per produrre biodiesel. Si otterranno indubbiamente delle riduzioni delle emissioni di gas serra, anche se nel calcolo si tiene conto del gasolio consumato per la coltivazione e la produzione di fertilizzanti. Tuttavia, in passato gli oli commestibili coprivano il fabbisogno locale: adesso la produzione di colza va tutta a finire nei motori diesel e l’Europa è costretta a importare oli vegetali.

Peggio del male

Questi ultimi sono prodotti a partire dall’olio di palma, coltivata in Malesia e in Indonesia in immense piantagioni, su terreni spesso ricavati con l’abbattimento delle foreste vergini e la bonifica delle paludi. Se si tiene conto di queste emissioni indirette, è evidente che il biocombustibile prodotto dalla colza finisce coll’avere un impatto di gran lunga più negativo sul clima rispetto al petrolio tradizionale.

Per la Commissione europea è una scoperta a dir poco imbarazzante. Dopo due anni di discussioni, pare che oggi nella legislazione si possa inserire il calcolo delle emissioni indirette. Una proposta in merito sarà presentata questa estate, ma non implicherà naturalmente la fine dei biocombustibili. Oggi il biodiesel rappresenta l’80 per cento del mercato europeo dei biocombustibili; il rimanente è coperto dal bioetanolo, l’equivalente per i motori a benzina.

La storia dei biocombustibili dimostra una volta di più quanto sia difficile trovare una soluzione all’attuale crisi ambientale. L’Europa rischia di diventare il bersaglio degli euroscettici e di chi contesta la teoria dell’origine umana del riscaldamento climatico. Malgrado tutti gli errori, però, creare un futuro sostenibile rimane un obiettivo legittimo.

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