L’euro ha le spalle larghe

A giudicare dai titoli dei giornali, la moneta unica sembra avere i giorni contati. Ma la realtà è diversa: il suo ruolo di valuta di riserva globale è intatto e le crisi sono incidenti di percorso, a patto di trarne le giuste conclusioni.

Pubblicato il 26 Novembre 2010 alle 11:27

Il tono è implorante, le parole quelle delle grandi tragedie: bisogna salvare l’euro, assolutamente! La “creatura” è malata, potrebbe anche morire. Era stato detto, del resto: è impossibile creare una zona monetaria senza un’unione politica. Con la loro ambizione faustiana, la loro folle pretesa di fare dell’Europa uno degli attori globali del XXI secolo, gli eurocrati hanno dato vita a un mostro: la zona euro.

La zona euro non è sostenibile, è il risultato di una volontà politica e non di una realtà economica; è contraria al buoncostume liberale, e di conseguenza esploderà. Se non domani, sarà dopodomani, per contagio diretto, per il fardello dei debiti pubblici o bancari di Irlanda prima, Portogallo poi, e quindi Spagna.

Ah! In questo momento per tirarsi su il morale non c’è niente di meglio che leggere i quotidiani britannici, una vera delizia mattutina. A questo proposito il Daily Telegraph, brillante e iperconservatore, è un vero must: in ogni sua riga non riesce a dissimulare tutta la gioia che prova all’annuncio delle sciagure dell’euro.

Sul Financial Times e l’Economist gli articoli sulla crisi irlandese sono più raffinati, ma restano sul medesimo registro: la moneta unica non sopravviverà. Alcuni paesi della zona euro dovranno uscire dalla moneta unica. Siamo già al di là dei semplici commenti sulla stampa, delle pie illusioni degli editorialisti. Qui siamo in piena battaglia ideologica.

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La bordata del Dca che arriva da Londra è inquietante: riflette anche ciò che pensano numerosi operatori finanziari. Ma allora, proprio come farebbe la Debating society della London school of economics, organizziamoci e partiamo al contrattacco!

C’è da notare che i guai dell’Irlanda sono imputabili a una politica economica delirante, e non all’appartenenza alla zona euro. C’è da tener conto che la Gran Bretagna – che non fa parte di tale zona – versa in condizioni finanziarie peggiori rispetto alla Francia, paese fondatore dell’unione monetaria. Resta tuttavia una realtà oggettiva: la zona euro sta attraversando crisi ripetute, provocate dal peso del debito dei suoi membri più deboli.

Ahimè: i mercati non smetteranno certo di mettere alla prova la solidità dell’unione monetaria: finché avranno dubbi, faranno salire i tassi negli stati periferici di Eurolandia. Occorre dunque battersi, vale a dire investire la garanzia degli altri stati della zona – in definitiva, i soldi dei contribuenti – per salvare i membri più deboli? La questione è politica. E anche la risposta lo è: l’euro vale sicuramente questa battaglia.

Gli europei hanno imparato la lezione della crisi della Grecia, e si sono dotati di una duplice ruota di scorta: il Meccanismo europeo per la stabilizzazione finanziaria (Mesf, pari a 60 miliardi di euro) e il Fondo europeo per la stabilizzazione finanziaria (Fesf, pari a 440 miliardi di euro).

A questi occorre aggiungere l’appoggio dato dal Fondo monetario internazionale, utilizzabile per erogare prestiti sotto forma di aiuti ulteriori che possono arrivare fino al 50 per cento della somma proveniente dall’Unione europea. Complessivamente, insomma, i fondi disponibili ammontano a 750 miliardi di euro.

Niente è perduto

L’accordo tra Dublino, Ue e Fmi riguarda un piano di aiuti per 85 miliardi di euro, cifra che lascia ancora un buon margine. Se l’euro fosse vittima della sfiducia degli investitori, sarebbe già crollato dopo la crisi greca, e cederebbe del tutto ancor oggi, con la crisi irlandese. Ma così non è (anche se il suo valore è sceso). Perché?

Perché l’euro in buona parte è un successo. È la seconda valuta più utilizzata per le riserve mondiali: il 62 per cento delle riserve delle banche centrali del pianeta sono in dollari, il 27 per cento in euro, il 4 per cento in sterline britanniche e il 3 per cento in yen. Ciò significa che vi sono moltissime persone direttamente interessate alla salute della moneta unica.

Nessun fondo sovrano o privato asiatico si è ancora sbarazzato delle proprie riserve in euro. L’Asia emergente, pertanto, crede nell’euro. Quello è sicuramente il futuro: tre o quattro grandi zone monetarie. “Abbandonare l’euro per questo o quel membro in difficoltà sarebbe un controsenso storico”, riflette il professor Jean-Hervé Lorenzi.

Sì, la gestione dell’euro impone di rinunciare alla sovranità in materia fiscale (Dublino lo sapeva); di cercare di risolvere i problemi strutturali interni alla zona euro, per esempio le eccedenze commerciali tedesche (Berlino dovrebbe ammetterlo); di accettare – “grandi paesi" inclusi – il principio delle sanzioni decise da coloro che rispettano le regole, fossero pure i “piccoli paesi” (Parigi deve accettarlo); di coordinare le politiche di bilancio prima che le leggi finanziarie siano sottoposte ai rispettivi parlamenti nazionali; di rendere omogenei i regolamenti bancari, e così via.

Questo è il teorema economico che si dovrebbe insegnare al Trinity college di Dublino, la più grande università irlandese: non si possono avere contemporaneamente una Guinness e i soldi per pagarla. (traduzione di Anna Bissanti)

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