Studenti tedeschi. Foto: www.auswaertiges-amt.de

L'università europea parla solo inglese

L’area universitaria europea ha adottato come lingua di lavoro l’inglese: i diplomi universitari in questa lingua sono sempre più numerosi, anche se nei Paesi dell’Europa meridionale questa possibilità si fa strada molto lentamente. E adesso sono i campus britannici a cominciare a dubitare del proprio “vantaggio competitivo” rispetto ad altre università europee.   
 

Pubblicato il 16 Settembre 2009 alle 15:53
Studenti tedeschi. Foto: www.auswaertiges-amt.de

Che lingua possono parlare uno studente spagnolo in Polonia e uno studente polacco in Spagna? E che dire di uno studente tedesco in Svezia e di uno francese in Lituania? La grande ricchezza di lingue nell’Unione Europea è di fatto un ostacolo non indifferente alla realizzazione dell’Area europea dell’istruzione superiore (Ehea), che ha lo scopo di promuovere la mobilità degli studenti. Di conseguenza, tutto lascia supporre che l’inglese potrà servire da lingua franca negli atenei europei, ma arrivare a un simile risultato comporterà investimenti a medio e lungo termine (non soltanto economici, ma prima di tutto organizzativi, e un considerevole impegno politico), e in ogni caso non sarà esente da complicazioni.

Prima di tutto, promuovere la mobilità equivale a dire che i paesi ospitanti dovranno investire nell’istruzione degli studenti stranieri le cui tasse di frequenza in molti casi (come nel caso di Spagna e Germania) non si avvicinano nemmeno lontanamente a coprire le spese effettive dei loro studi. In realtà il paese ospitante finanzia l’istruzione della popolazione confinante senza riceverne nulla in cambio: questa è una considerazione alla quale i paesi membri dovranno trovare una soluzione adeguata.

In secondo luogo, la gamma di corsi offerti in lingua inglese (specialmente corsi di laurea) è ancora modesta, specialmente nei Paesi dell’Europa meridionale che per decenni hanno indugiato troppo, procrastinando l’obbligo di fornire una solida istruzione in lingua inglese.

Accento sul modello Erasmus

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Questa è la situazione nella quale si ritrova la Ue a tre mesi dal lancio ufficiale nel 2010 dell’Area europea dell’istruzione superiore, alla quale hanno aderito con la loro firma 47 Paesi dopo averne approvato la nascita con la Dichiarazione di Bologna del 1999. Ma ancora oggi i governi devono mettere a punto le politiche e le iniziative finalizzate a superare questi ostacoli.

"La mobilità totale per conseguire diplomi universitari rimarrà un’eccezione per molti anni a venire: sarà limitata a università molto prestigiose e a corsi particolari" avverte il presidente di Uned John Gimeno, che presiede anche la Commissione degli affari internazionali della Conferenza dei presidi delle università spagnole (Crue). "Il modello Erasmus si dovrà evolvere ancora molto: ciò significa che gli studenti andranno a frequentare qualche corso in un altro Paese dell’Unione, o prenderanno un secondo diploma presso altri centri universitari in base ad accordi tra atenei, ma la mobilità totale è ancora lontana molti anni".

L'inglese lingua franca

"Carlo V era solito dire che si rivolgeva a Dio in spagnolo, alle donne in italiano, agli uomini in francese e al suo cane in tedesco. Oggi potrebbe aggiungere di poter parlare agli atenei universitari in inglese". Questo aneddoto introduce la presentazione di un seminario sulle strategie politiche linguistiche per la Ue che si terrà a Bruxelles nel dicembre prossimo. La posta in gioco, per l’Europa, è davvero importante.

"È meglio insegnare in inglese?" si domandano gli esperti. Dietro a questo dibattito, tuttavia, c’è dell’altro: come possiamo promuovere una lingua franca per incrementare la mobilità degli studenti avendo al contempo la garanzia che coloro che studiano in una lingua diversa dalla propria lingua madre conseguano una solida preparazione accademica? In che misura le lingue e le culture possono essere indebolite da una politica linguistica universitaria eccessivamente mirata al mercato? E infine, queste politiche possono essere compatibili con quelle che promuovono la diversità europea e il multilinguismo?

Sull’altro versante ci sono i britannici. Il prestigioso Times Higher Education alcuni giorni or sono ha dedicato alla questione un editoriale intitolato “Everyone is talking the talk” nel quale mette in guardia dal fatto che “l’uso sempre più diffuso dell’inglese come lingua dell’istruzione superiore in Europa possa costare al Regno Unito un vantaggio di fondamentale importanza per la concorrenza”. Che accadrebbe dunque se l’inglese dovesse diventare la lingua franca delle università europee? "Naturalmente" risponde il presidente dell’Uned, "l’offerta britannica non esaurirebbe l’attuale richiesta di studiare in inglese. I paesi negligenti sono stati raggiunti dai paesi scandinavi e dai Paesi Bassi, per esempio, che da sempre offrono un numero molto alto di corsi in inglese".

A ogni paese il suo modello

L’ultimo fattore determinante per la mobilità studentesca, e forse il più importante, sono i finanziamenti. Chi è davvero disposto ad accollarsi le spese degli studenti che studiano in un altro paese? Dopo tutto, gli aiuti statali per i corsi di laurea non sono tutti uguali nella Ue. In Spagna la frequenza e le spese di iscrizione alle università pubbliche sono pari in media al 12 per cento degli attuali sussidi, e l’aiuto medio per studente è di 5mila euro l’anno. Nei paesi anglo-americani, invece, le spese per la frequenza dell’università corrispondono al 35 per cento dei sussidi medi statali. Negli Stati Uniti, per esempio, il sussidio medio annuale in alcuni stati raggiunge più o meno i ventimila euro a studente. Ogni paese dell’Ue, infine, ha una situazione finanziaria diversa, e ciò rende quanto mai complicata la situazione.

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