La centrale a carbone di Pątnów.

Perché la Polonia ha detto no allla direttiva sul clima

Varsavia ha ricevuto dure critiche per messo il veto sulla direttiva di Bruxelles. Ma i suoi dubbi sono legittimi: le nuove misure servono soprattutto a favorire le industrie dei paesi più forti.

Pubblicato il 12 Marzo 2012 alle 15:41
La centrale a carbone di Pątnów.

Il veto che la Polonia ha opposto alla direttiva che dovrebbe ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, in occasione del summit dell’Ue di Bruxelles di venerdì scorso, è stato legittimo. Ma le modalità con le quali abbiamo spiegato la nostra posizione in Europa sono deplorevoli.

Tra le autorità polacche e la commissaria Connie Hedegaard non c’è un briciolo di fiducia. Il vero problema però non è questo, perché i commissari vanno e vengono e a Bruxelles si mormora che nella prossima Commissione non ci sarà più un portafogli per le questioni climatiche. La cosa peggiore è il clima avvelenato di reciproca diffidenza che si è creato tra la Polonia e alcuni dei suoi partner chiave nell’Unione, come Germania, Svezia e Danimarca.

I paesi Ue e le organizzazioni ambientaliste si rifiutano di riconoscere che la Polonia ha compiuto uno sforzo enorme per tagliare le emissioni di CO2, riducendole dai 453 milioni di tonnellate del 1990 ai 377 milioni del 2009. Rispetteremo facilmente l’obiettivo Ue di ridurre entro il 2020 le emissioni del 20 per cento rispetto ai livelli del 1990. E lo faremo senza il sistema europeo di scambio delle emissioni, che assomiglia un po’ all’istituzione medievale delle indulgenze, e senza i costosi sussidi per passare all’energia eolica.

Raggiungeremo l’obiettivo stabilito migliorando l’efficienza energetica e sostituendo le nostre centrali di epoca comunista con impianti di ultima generazione, alimentati però anch’essi a carbone. Ma nessun politico polacco serio dirà mai che la politica per il clima dell’Ue è inefficacie e mal calcolata, perché questo è tabù.

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Dall’altra parte le cose non vanno certo meglio: è chiaro che la strategia dell’Ue è finalizzata a eliminare il carbone, ritenuto il combustibile più nocivo dal punto di vista delle emissioni. L’energia ottenuta dal carbone sarà più costosa di quella ottenuta dal gas e perfino dall’energia eolica. Nessun politico dell’Europa occidentale però ammetterà mai una cosa del genere: di conseguenza, al contrario ci rifilano banalità sulle tecnologie del “carbone pulito”, per esempio affermando prospettando lo stoccaggio sotterraneo del carbonio. Ma tutte queste tecnologie non vedranno mai la luce, perché dal punto di vista economico sono insensate: realizzare centrali nucleari o a gas costa molto meno.

In tale situazione, i politici e le autorità polacche – che non amano certo le teorie del complotto – sospettano che il riscaldamento climatico stia semplicemente diventando un comodo mezzo per promuovere le tecnologie in cui eccellono alcuni paesi. I generatori eolici olandesi e tedeschi hanno bisogno di nuovi mercati, perché la loro espansione in occidente è ormai agli sgoccioli.

Questi sospetti sono legittimi? Credo che si tratti di un blocco come quello descritto da Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. La nuova religione è più brava a riconciliare le necessità spirituali e materiali di mercanti e industriali. Oggi combattere il riscaldamento del clima significa avere in mente sia ideali sia interessi. Diventa più facile scaricare le spese dei sussidi per l’energia eolica sulle spalle dei consumatori se questi credono che equivalga a fare qualcosa di buono per il pianeta. E se nel frattempo la Siemens o la Vestas fanno fortuna, tanto meglio.

Il bluff della dipendenza

Al di là delle argomentazioni puramente ambientalistiche, l’Ue ci sta propinando la sua politica per il clima affermando che ci libererà dai combustibili fossili estratti in paesi politicamente instabili o oppressi dalle dittature. A parte il fatto che ciò puzza di ipocrisia cinquecentesca (le importazioni dalla Cina per chissà quale motivo non danno fastidio più di tanto a nessuno), tale argomentazione è del tutto fuori luogo nel caso della Polonia.

Dopo il veto polacco Greenpeace ha affermato che esso aumenterà la dipendenza dell’Ue dai combustibili fossili e che “l’Ue sta pagando un miliardo di dollari al giorno per questo”. Greenpeace si rifiuta di capire che la situazione polacca è esattamente opposta: la politica per il clima costringe i paesi a sostituire al carbone il gas e il nucleare – e ciò per la Polonia significa dipendere maggiormente dal gas russo, in quanto le riserve polacche di gas di scisto sono ancora dubbie.

Perché la Polonia dovrebbe fare un sacrificio per il resto dell’Ue e rinunciare al proprio carbone quando i trattati dell’Ue stabiliscono che gli stati membri debbano essere indipendenti nel determinare il proprio approvigionamento energetico?

Il commissario al bilancio, il polacco Janusz Lewandowski, ha messo in discussione la teoria del riscaldamento globalem attirandosi aspre critiche. Probabilmente a ragione, perché i politici non dovrebbero interferire nel dibattito scientifico.

Ma parlare di conseguenze economiche delle decisioni sul “clima” è tutt’altra cosa. In questo caso il governo polacco ha argomenti validi e deve cercare di farli arrivare all’opinione pubblica occidentale. Peccato che non ci stia neppure provando.

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