Tonniere ormeggiate nel porto principale di Mahajanga, nel nord del Madagascar. | Foto: ©Niccolò Natali Tonniere ormeggiate nel porto principale di Mahajanga, nel nord del Madagascar. | Foto: ©Niccolò Natali

Come gli accordi con l’Europa sulla pesca al tonno lasciano il Madagascar con l’amaro in bocca

Presentato come modello di cooperazione sostenibile, l’accordo di partenariato sulla pesca tra Ue e il Madagascar cela invece tensioni, squilibri e rischi ecologici nascosti dietro la diplomazia ittica europea.

Pubblicato il 19 Agosto 2025
Tonniere ormeggiate nel porto principale di Mahajanga, nel nord del Madagascar. | Foto: ©Niccolò Natali Tonniere ormeggiate nel porto principale di Mahajanga, nel nord del Madagascar. | Foto: ©Niccolò Natali
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Come per ogni attività estrattiva, anche la pesca industriale segue una logica precisa: massimizzare le catture riducendo al minimo i costi. Fino al sei per cento del tonno importato in Europa proviene da imbarcazioni battenti bandiera dell’Ue che operano nell’Oceano indiano, rendendo questa regione uno dei protagonisti di un mercato che si prevede raggiungerà 1,69 miliardi di dollari entro il 2033. Impiegare flotte europee nelle zone economiche esclusive (Zee) di altri paesi è però spesso proibitivo in termini di costi, a meno che non intervenga la commissione europea.

Attraverso gli accordi di partenariato per una pesca sostenibile (Sustainable fisheries partnership agreements – Sfpa nel gergo dell’Unione europea), l’Ue negozia l’accesso alle acque di alcune nazioni, per lo più africane, in cambio di sostegno finanziario e investimenti nel settore della pesca locale. Solo nel 2025, 156,7 milioni di euro del bilancio della politica comune della pesca (Pcp) sono stati destinati a questi accordi, attualmente in vigore in dodici paesi, sette dei quali si focalizzano sul tonno. Sebbene questi accordi vengano ufficialmente presentati come strumenti per promuovere la sostenibilità ambientale e supportare le economie locali, molte ong e attivisti ambientali ritengono che servano principalmente a sovvenzionare gli interessi dell’industria europea.

Questa inchiesta esamina più da vicino uno degli accordi più controversi: l’Sfpa tra l’Unione europea e il Madagascar. Presentato come un modello di cooperazione sostenibile, mette invece in luce le tensioni, gli squilibri e i rischi ecologici che si nascondono sotto la superficie della diplomazia ittica dell’Ue.

All’Europa i sussidi, al Madagascar gli scarti

Nel 2023 è stato firmato un nuovo Sfpa tra il Madagascar e l’Unione europea che ha concesso l’accesso alla Zee del Madagascar a più di 65 pescherecci (33 dotati di palangaro, 32 con reti a circuizione). Per soli 12,8 milioni di euro in quattro anni – meno del valore di mercato di una singola battuta di pesca industriale del tonno – le imprese europee hanno ottenuto il diritto di prelevare ogni anno 14mila tonnellate di tonno dalle acque malgasce. Secondo i dati forniti direttamente da Paubert Mahatante, ministro della pesca del Madagascar, senza questo accordo una nave europea con reti a circuizione e una stazza lorda di 3mila tonnellate o superiore dovrebbe pagare fino a 537mila dollari all’anno (circa 460mila euro) per ottenere l’accesso, una cifra che probabilmente renderebbe i costi superiori ai benefici.

Il Madagascar è una delle regioni africane più povere. Circa 85mila pescatori vivono nelle aree costiere, dove affrontano gravi carenze alimentari. Sono anche tra i più esposti ai fenomeni atmosferici legati al cambiamento climatico, come siccità e cicloni. Nella provincia di Toliara, situata nella regione sud-occidentale di Atsimo-Andrefana, la più povera del paese, ci sono 196 villaggi di pescatori con quasi ottomila famiglie dedite a questa attività. La maggior parte di queste famiglie appartiene al popolo Vezo, un gruppo etnico che tradizionalmente naviga utilizzando piroghe di legno munite di vele rudimentali. Vivono in condizioni di povertà estrema e malnutrizione, e hanno accesso limitato ai servizi igienici di base.

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