Attualità Guerra in Ucraina
Putin in prigione, Vilnius, Museo del genocidio, repressione, lotta e liberazione, aprile 2025. | Foto: Francesca Barca

Nella morsa della prigionia politica: la dolorosa e complicata questione dei detenuti ucraini nelle carceri russe e nei territori occupati 

A più di tre anni dall’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, centinaia di cittadini ucraini, civili e militari, restano detenuti nelle carceri russe o nei territori occupati, in condizioni che violano il diritto internazionale. Il loro destino rappresenta una delle ferite più profonde e silenziose di questo conflitto. Il tema della loro liberazione e, soprattutto, della reintegrazione una volta tornati in patria, è ancora poco affrontato.

Pubblicato il 30 Luglio 2025
Putin in prigione, Vilnius, Museo del genocidio, repressione, lotta e liberazione, aprile 2025. | Foto: Francesca Barca

“Jevhen Matveev, sindaco della città di Dniprorudne, regione di Zaporižžja. È stato catturato a inizio invasione perché si è rifiutato di cooperare con i militari russi, poi torturato e infine ucciso in prigionia; ma almeno il suo corpo è ritornato”, racconta Nataliia Jaščuk, Senior War Consequences Officer al Centro per le libertà civili – associazione ucraina che si occupa di diritti umani, co-vincitrice del Nobel per la Pace 2022 – snocciolando una carrellata di nomi e informazioni su persone, civili e militari, finite nella morsa della prigionia in Russia e nei territori occupati dalle truppe del Cremlino, Crimea inclusa. 

“Ci sono poi intere famiglie”, Nataliia indica altre fotografie da un opuscolo intitolato Prisoner’s Voice del 2023. “Una persona con disabilità permanente che è stata rapita, uno studente, un operaio, un informatico che è fuggito dall’occupazione in Crimea, un uomo che ha tentato di salvare la moglie, morta poi tra le sue braccia. Storie di tutti i tipi. Andrij, Mykola, Serhij…”. 

“Anche donne?”, chiedo timidamente. “Anche donne. Iryna Horobtsova, volontaria di Cherson: l’hanno portata via sotto gli occhi dei genitori, tenuta in isolamento, senza documenti, senza informazioni per più di un anno. E poi ci hanno costruito un ‘caso fittizio’. E l’hanno condannata, secondo la ‘loro’ legge, come spia”.

"Prisoner's Voice" Center for Civil Liberties
⁠Copertina dell'opuscolo "Prisoner's Voice", iniziativa del Centro per le libertà civili ucraino per il rilascio dei cittadini ucraini detenuti o imprigionati in Russia e nei territori occupati e per la tutela dei loro diritti fondamentali.

Queste sono solo alcune delle storie arrivate tra le mani di Nataliia e degli operatori umanitari che si occupano, come lei, di diritti umani in una delle associazioni più attive in Ucraina. La maggior parte dei casi di prigionia, spiega Jaščuk, avviene nei territori occupati, dove si stima ci siano circa 16mila persone detenute illegalmente. 

Ma i numeri sono approssimativi, come lo sono quelli dei minori rapiti e deportati. I nuovi casi registrano famiglie sfaldate, civili interrogati, trattenuti, torturati, poi magari rilasciati; altri vengono trasferiti chissà dove e, dopo uno o due anni di prigionia, condannati per casi montati. 

Oltre ai militari, ci sono prigionieri civili, cittadini che abita(va)no nelle regioni controllate dal governo di Kiev, più o meno lontane dalla linea del fronte: Sumy, Černihiv, Charkiv, Cherson, Zaporižžja. Ma anche della regione della capitale. “Solo nell’oblast’ di Kiev, in un mese e mezzo di occupazione, hanno rapito circa 500 persone”, aggiunge Nataliia che, insieme a colleghi e volontari, continua l’opera di ricerca. Ricerca di prigionieri, ma anche di giustizia. 

“Questa è la guerra più documentata nella storia dell'umanità. Nel nostro database, realizzato insieme ai nostri partner, abbiamo più di 88 mila episodi di crimini di guerra. Non si tratta solo di numeri: dietro ci sono vite umane", spiegava Oleksandra Matvijčuk, direttrice del Centro per le libertà civili in un’intervista.

Le sfumature della detenzione politica: civili contro militari

Nel contesto attuale della guerra russa in Ucraina, civili e militari sono detenuti nelle stesse condizioni, spesso insieme, senza alcuna distinzione; è pero’ importante capire che non fanno esattamente parte della stessa categoria di prigionieri politici, che si basa essenzialmente sullo status giuridico e istituzionale della persona al momento della detenzione, nonché sul contesto in cui si verifica la privazione della libertà (nel caso di civili può trattarsi di giornalisti, attivisti o manifestanti; nel secondo di militari, di persone appartenenti alle forze armate, di sicurezza o paramilitari). 

Un aspetto che gli stessi russi, i carcerieri, tendono a confondere. Con la differenza che, nel loro caso, la confusione è voluta.

“Sono chiaramente tutte persone che sono state catturate, in modo diretto o meno, in situazioni più o meno complesse”, spiega Jaščuk: “La situazione più difficile riguarda coloro che vengono arrestati nelle zone occupate e poi trattenuti per lunghi periodi senza motivo chiaro, spesso sotto accuse pesanti e ingiustificate. Questo vale anche per alcuni prigionieri militari, che subiscono condizioni particolarmente dure. Tuttavia, per comodità mentale o per una certa semplificazione, si parla solo di ‘prigionieri di guerra’ quando si fa riferimento a chi è stato catturato. Ma questo termine si applica davvero solo ai militari. I civili non possono essere considerati prigionieri di guerra, perché non sono combattenti. Questi civili sono vittime di rapimenti, detenzioni arbitrarie, persecuzioni legali infondate e altri abusi”.

In realtà, esistono molteplici status legali e situazioni che li riguardano. “Forse è più facile per le persone comprendere il concetto di ‘prigioniero’ come un eroe, come una persona che ha combattuto e che è stata catturata. Ma dietro a questo termine, spesso si nascondono persone comuni, civili, che soffrono in silenzio e che non hanno una vera rappresentanza”, cerca di chiarire Jaščuk.

La conoscenza della situazione dei civili è solitamente molto limitata. Nonostante alcune organizzazioni per i diritti umani si occupino di loro, la portata del problema resta poco visibile. In Ucraina, l’Unione delle famiglie delle vittime del Cremlino è una realtà che cerca di far luce su queste situazioni, insieme a organizzazioni come il gruppo in difesa dei diritti umani di Charkiv (KHPG).


“I civili non possono essere considerati prigionieri di guerra, perché non sono combattenti. Sono vittime di rapimenti, detenzioni arbitrarie, persecuzioni legali infondate e altri abusi” – Nataliia Jaščuk


“Ci sono due ragioni, correlate, per cui i civili non vengono rilasciati. In primo luogo, perché equivarrebbe ad ammettere un crimine. La seconda è la riluttanza a mostrare ancora una volta i propri crimini”, spiega Maksym Kolesnikov, ex prigioniero di guerra che presta servizio nelle forze armate ucraine dal 2015. 

Originario di Donec’k, Kolesnikov è stato catturato il 20 marzo 2022 durante la battaglia di Kiev. Dopo dieci mesi di prigionia, è stato rilasciato in uno scambio nel febbraio 2023. Secondo la sua testimonianza erano oltre 500 i detenuti, civili e militari. 

“All’inizio ci hanno portato in Bielorussia, in un campo di filtraggio, per circa due giorni. Da lì nella città di Novozybkov, nella regione russa di Brjansk, in un centro di detenzione preventiva. I russi spacciano i civili ucraini per personale militare: l’esercito russo gli fa semplicemente indossare l’uniforme delle forze armate ucraine”, spiega Kolesnikov ricordando che, secondo le regole di guerra, i civili non dovrebbero essere catturati perché non sono militari, e ciò viola le convenzioni internazionali. 

Le testimonianze di chi torna dalla prigionia russa

Traumi fisici e psicologici, difficoltà nel tornare alla vita “normale” (se tale possiamo definire quella di un paese in guerra) e mancanza di un sostegno sistematico da parte dello stato. Sono queste le sfide e gli ostacoli che devono affrontare coloro che hanno subito le prigioni russe, la reclusione in seminterrati o cantine buie e, spesso, violenze e torture. Cosa attende una persona dopo il rilascio e di cosa ha bisogno, fisicamente, emotivamente, legalmente? Quale ruolo possono svolgere la società, le comunità e i volontari? 

⁠Gli ex prigionieri politici Maksym Kolesnikov e Maksym Butkevyč discutono di riabilitazione e reintegrazione in dialogo con Alona Maksymenko del Center for Civil Liberties (a sinistra) al festival Docudays, nel giugno 2025. | Foto: ©Claudia Bettiol

Tutte domande a cui hanno cercato di rispondere Maksym Butkevyč, difensore dei diritti umani ucraino, giornalista, attivista della società civile, rilasciato dalla prigionia russa nell’ottobre 2024, e Maksym Kolesnikov, ex prigioniero di guerra, durante uno degli incontri sui diritti umani al festival del film documentario Docudays.

“Il sostegno medico e psicologico congiunti sono fondamentali”, afferma Butkevyč, dopo aver dichiarato che il reinserimento iniziale, a cui si è sottoposto per quattro settimane in un centro di riabilitazione per personale militare, è stato molto importante per lui. Cofondatore del Centro per i diritti umani Zmina e di Hromads’ke Radio, all’inizio di marzo 2022 Butkevyč si è arruolato come volontario nelle forze armate ucraine; a luglio dello stesso anno è stato catturato dall’esercito russo e condannato a 13 anni di carcere con accuse prefabbricate. E’ stato rilasciato in uno scambio di prigionieri di guerra nell’ottobre 2024. 

La parte più difficile della riabilitazione, come raccontano Butkevyč e Kolesnikov, è l’assistenza psicologica, soprattutto perché molte persone ritengono di non averne bisogno. Inoltre, alcuni hanno anche bisogno di assistenza sociale e legale, soprattutto se provengono da territori occupati e hanno effettivamente perso tutto. “La mia riabilitazione è durata circa tre settimane: identificazione dei problemi, visita medica, esami, test psicologici”, condivide Kolesnikov, che al ritorno della prigionia pesava 32 chili in meno.

In materia di riabilitazione e di reintegrazione, se per i militari esiste un protocollo ben definito, per i civili tutto questo non c’è. “Ma va creato!”, sottolinea Jaščuk. “Procuratori e investigatori devono registrare i crimini commessi e agire secondo la Convenzione di Istanbul. Tutto questo deve essere fatto da specialisti, da esperti. E noi li abbiamo. Ma siamo ben consapevoli che, dati i numeri attuali e quelli che ci saranno quando queste persone torneranno, non ne avremo abbastanza comunque. Il sistema è da potenziare”.

Ci sono organizzazioni non governative, fondazioni e organizzazioni religiose che aiutano. Uno degli obiettivi raggiunti in seno all’Ucraina è la modifica alla legislazione affinché i civili tornati in libertà siano tutelati e non possano essere mobilitati. Un traguardo non indifferente.

“Tuttavia, anche qui emerge un problema profondo e strutturale. Parliamo di persone che arrivano soprattutto dalle zone occupate. Le loro storie sono molto diverse: c’è chi è riuscito a fuggire, chi ha riscattato un familiare con mezzi propri, chi è stato liberato in modi meno formali. Ma c’è un elemento comune: subiscono violenze di ogni genere, finché non vengono spezzate psicologicamente. E quando vengono completamente ‘distrutte’, se ai carcerieri serve ottenere qualcosa – un’impresa, un’abitazione, un veicolo, qualsiasi bene – trovano il modo di far firmare loro documenti o cedere tutto quello che hanno in cambio della promessa di libertà. Quella persona, ormai privata di tutto, spesso prende la difficile decisione di tornare nei territori controllati dall’Ucraina”, spiega Jaščuk.

Perché qui inizia un nuovo calvario: “non riesce a dimostrare di essere stata prigioniera, torturata, detenuta illegalmente. Non ha nessuna prova, nessuna registrazione ufficiale, niente che attesti la sua esperienza perché il suo nome non appare nemmeno nelle ‘liste nere’. E chi poteva testimoniarlo è rimasto nelle zone occupate”. Questo produce un circolo vizioso, aggiunge Jaščuk: “lo stato non ha ancora una procedura chiara, efficace, per riconoscere queste vittime invisibili. Questa è una lacuna che dobbiamo colmare. Perché, finché non ci sarà un sistema che riconosce e protegge anche queste persone, la giustizia resterà incompleta, e il ritorno alla libertà sarà solo parziale”.

Senza contare, poi, che queste persone molto spesso non hanno nemmeno un posto dove andare, perché il loro territorio è occupato e tornare lì (se un tetto sopra la testa ce l’hanno ancora) vorrebbe dire mettere a rischio la propria vita.

La linea europea sui prigionieri politici rimpatriati

Alona Maksymenko, collega di Nataliia Jaščuk, ha contribuito a mettere in luce le soluzioni necessarie per una buona reintegrazione delle persone che tornano dalla prigionia. Innanzitutto, l’accesso immediato a cure e aiuti: mettere in atto e seguire programmi che includano assistenza medica, psicologica, acquisizione di documenti e sostegno finanziario, con particolare attenzione alle famiglie, sono punti cruciali. 

Tutto ciò deve, tuttavia, avvenire in maniera trasparente e nel contesto di leggi e procedure ben chiare. Alcune linee guida sono state stilate nella legge sul piano di reintegrazione, approvata il 15 marzo 2024, che dovrebbe garantire un sistema stabile per sostenere il rilascio e i diritti dei prigionieri liberati. 


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Le autorità governative e le istituzioni (ministeri, commissioni, organizzazioni governative) dovrebbero infatti lavorare in perfetta sintonia con la società civile, colmando ciascuno i propri vuoti per fornire assistenza economica, legale e sociale.

Un passo ulteriore va fatto cercando anche il sostegno internazionale. Sin dall’annessione illegale della Crimea del 2014, l’Unione europea impone sanzioni economiche e giuridiche per esercitare pressione sulla Russia nel contesto del conflitto con l’Ucraina (finora sono 18 i pacchetti di sanzioni adottati, l’ultimo nel luglio 2025). 

Questi sono indubbiamente strumenti chiave volti a mettere in ginocchio l’economia russa e a enfatizzare il reato di aggressione. A tal proposito, la creazione di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina, annunciata nel 2023 e sostenuta politicamente e finanziariamente da Bruxelles, mira a colmare un vuoto lasciato dalla Corte penale internazionale, che non può perseguire Mosca per il crimine di aggressione a causa di limiti giurisdizionali (la Russia non è parte dello Statuto di Roma). Il tribunale dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2025 e avrà il compito di giudicare l’élite politica e militare russa ritenuta responsabile della guerra, rafforzando il principio dell’irresponsabilità zero anche per i leader di Stati potenti.

Secondo Oleksandra Matvijčuk un’istituzione di questo tipo è necessaria e si tratta di una decisione politica in senso lato: “Se vogliamo evitare guerre in futuro, dobbiamo punire gli stati e i leader che le scatenano oggi. I Tribunali di Norimberga e di Tokyo dopo la Seconda guerra mondiale costituiscono in un certo senso un precedente, ma in realtà erano i tribunali dei vincitori della guerra. E’ stata stabilita una norma tacita secondo la quale la giustizia sarebbe un privilegio dei vincitori. Ma, al contrario, la giustizia non può essere un privilegio, è un diritto umano fondamentale"

Pur non incidendo direttamente sul destino dei prigionieri ucraini detenuti oggi in Russia, questo strumento giuridico rappresenta un primo tassello essenziale nella costruzione di un futuro quadro di giustizia e responsabilità internazionale. 

Infatti, se Bruxelles si è lanciata contro Mosca in tal senso – seppur registrando ad oggi risultati limitati nel punire la Russia a causa di compromessi da evasione sistemica, diversificazione verso partner non allineati e fragilità interne nell’applicazione – è vero anche che resta invece poco chiaro l’impatto effettivo di iniziative europee in sostegno a Kiev rivolte, in particolare, alla questione dei prigionieri politici rimpatriati, di cui poco si parla anche fuori dall’Ucraina: al momento, infatti, non esistono programmi centralizzati e strutturati che garantiscano un accesso diretto a supporto psicologico o socio-economico per chi torna dalla prigionia. In assenza di tutto ciò, l’accesso a tali misure rimane in gran parte gestito da attori nazionali ucraini, Ong e agenzie umanitarie, più che da programmi Ue diretti.

I prigionieri politici della Crimea

Il Centro per le libertà civili, insieme ad altre realtà, si occupa anche dei prigionieri politici ucraini della penisola, in particolar modo dei tatari di Crimea. “Al momento ci sono più di 200 casi relativi alla Crimea, i cui cittadini vengono condannati per motivi politici. Inoltre, hanno iniziato da tempo a perseguire gli avvocati dei tatari di Crimea, privandoli della licenza di avvocato affinché non potessero difendere la loro stessa gente in Crimea”.

Uno dei casi più importanti e clamorosi è quello di due avvocati, Lili Hemedži e Rustem Kamiljev, ai quali sono state revocate le licenze e che sono stati poi perquisiti e sottoposti a pressioni. La loro battaglia continua ancora oggi. Non gli permettono di lavorare, di rappresentare gli interessi dei tatari di Crimea. Li perseguitano costantemente.

Parallelamente, il caso più noto di prigionia politica tra i crimeani è quello di Nariman Celâl, giornalista e attivista politico nato a Navoiy, nell’allora Repubblica Socialista Sovietica Uzbeka, e che nel 1989 ha fatto ritorno in Crimea con i suoi genitori. Collaboratore per il canale televisivo ATR e per il quotidiano Avdet, dal 2013 è il primo vicepresidente del Mejlis, l’organo di rappresentazione del popolo tataro di Crimea, a capo dell’Unità di informazione e analisi.

È stato arrestato il 4 settembre 2021 per il presunto “sabotaggio di un gasdotto in Crimea, nel villaggio di Pereval’ne e accusato ai sensi dell’articolo 281, paragrafo 2, del Codice penale russo, che prevede la reclusione da 10 a 20 anni. Il 28 giugno 2024 Celâl è riuscito a tornare in Ucraina e lo scorso maggio è stato nominato dal presidente ucraino ambasciatore in Turchia.

La sua storia ha un lieto fine che molti suoi colleghi, familiari e amici, non hanno. Viene raccontata nella raccolta documentaria Voci libere della Crimea (Vil’ni holosy Krymu), che narra le storie di sedici giornalisti e attivisti di origine prevalentemente crimeana e/o tatara, detenuti in Crimea per motivi politici dall’occupazione russa.

Il volume, frutto di una collaborazione tra Ukrainian PEN, The Ukrainians Media, Vivat e il Centro per i Diritti Umani ZMINA (con il sostegno del National Endowment for Democracy), nasce dall’iniziativa #SolidarityWords lanciata nel 2021, con l’obiettivo di documentare e far conoscere le vicende dei prigionieri politici crimeani. Tutte le detenzioni, spesso punite con condanne da 7 fino a 19 anni, sono state motivate da accuse quali “terrorismo”, “estremismo” o “sabotaggio”, ritenute arbitrarie e funzionali alla repressione dell’informazione e del dissenso.


“Se vogliamo evitare guerre in futuro, dobbiamo punire gli stati e i leader che le scatenano oggi” - Oleksandra Matvijčuk


Il libro, curato a più mani – tra cui si annovera il contributo dell’antropologa Olesja Jaremčuk – si distingue per il suo valore umano e storico: non solo mette in luce le atrocità subite (torture, processi iniqui, sofferenze carcerarie) ma tratteggia anche la resilienza e il coraggio dei protagonisti, che considerano l’impegno civico, la democrazia e la giustizia elementi inscindibili dalla loro identità crimeana.

Prigionieri nell’oblio

La situazione dei prigionieri politici ucraini, sia civili che militari, resta drammatica: decine di migliaia di cittadini sono detenuti in Russia e nelle zone occupate, spesso senza alcun riconoscimento giuridico, accusati di reati pretestuosi come terrorismo o spionaggio e sottoposti a torture sistematiche in centri di detenzione estrema come quello di Taganrog. La tragica morte della giornalista ucraina Viktoriia Roščyna, avvenuta in un carcere russo, testimonia la brutalità del sistema repressivo di Mosca.

Denunciare questi crimini di guerra, ottenere la liberazione di tutti i prigionieri politici e fornire assistenza concreta a loro e alle loro famiglie, è a dir poco necessario. Ciò si può fare mantenendo alta l’attenzione nazionale e internazionale sulla loro situazione e spingendo l’Unione europea a istituire programmi di supporto concreti, mirati e coordinati. Infatti, nonostante le dichiarazioni di sostegno politico e i fondi destinati all’Ucraina, il ruolo dell’Unione nella questione dei prigionieri politici ucraini resta ancora marginale e poco strutturato. 

Bruxelles dovrebbe considerare di promuovere all’unanimità e più attivamente la creazione di un meccanismo di monitoraggio internazionale sulle condizioni di detenzione, sostenere con fondi dedicati i programmi di reintegrazione e riabilitazione per i prigionieri rientrati, e spingere per l’introduzione e la messa in atto di sanzioni mirate contro funzionari russi coinvolti in detenzioni arbitrarie. Inoltre, un’iniziativa diplomatica coordinata a livello Ue potrebbe contribuire a rafforzare la pressione multilaterale sulla Russia, al fine di garantire il rispetto dei diritti umani.

Paesi quali Polonia e Paesi Bassi, che sono tra i principali promotori di risoluzioni europee sul riconoscimento della responsabilità russa per i crimini di guerra, illustrano come un impegno costante, sia a livello nazionale che europeo, possa contribuire a sviluppare strumenti di assistenza indispensabili.

Sarebbe, quindi, opportuno che l’agenda delle azioni politiche europee di oggi sul tema dei prigionieri fosse più concreta e visibile, e non meramente simbolica.

Questo articolo è stato realizzato grazie ai Thematic Networks di Pulse, un'iniziativa europea che sostiene le collaborazioni giornalistiche transnazionali, con la collaborazione di Francesca Barca (Voxeurop) e Maryna Svitlychna (OBCT). L'intervista a Oleksandra Matvijčuk è stata realizzata il 16 luglio durante la Ukraine Recovery Conference 2025 a Roma da Maryna Vvitlychna.

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