“Il termovalorizzatore ha fatto un miracolo: ci ha fatti incontrare”. Daniela è tra i primi ad arrivare all’azienda agricola che ospiterà l’incontro tra i rappresentanti dei comitati dei Comuni limitrofi a Santa Palomba (zona del Municipio Roma IX) convocati per fare il punto sulla situazione.
Daniela è la segretaria del comitato di quartiere di Santa Palomba, appendice estrema ai margini del Comune di Roma. Appena scende dall’auto, saluta il padrone di casa, Antonio Cosmi, che gestisce l’azienda agricola Certosa insieme al fratello: qui i comitati si ritrovano circa ogni due settimane. Fino all’annuncio del progetto del termovalorizzatore, ciascun gruppo di quartiere si occupava esclusivamente dei problemi interni alla propria zona, senza contatti né collaborazioni con i territori vicini.
Dal 2022, le cose sono cambiate. Subito dopo la sua elezione, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri ha annunciato la realizzazione di un termovalorizzatore a Santa Palomba. Questa decisione ha fatto sì che i cittadini e i comitati dei Comuni limitrofi si mobilitassero: Albano Laziale, Ardea e Ariccia si sono uniti per opporsi al progetto.
Nonostante le proteste e i ricorsi legali, tutti respinti, il progetto da 7,4 miliardi di euro è andato avanti con l’assegnazione definitiva dell’appalto a un raggruppamento di imprese guidato da Acea Ambiente avvenuta a maggio 2025. L’impianto, previsto per incenerire 600mila tonnellate di rifiuti all’anno, pari al 37 per cento della produzione di Roma, dovrebbe essere completato entro il 2028.
Per molti romani il termovalorizzatore sembra essere l’unica soluzione per mettere fine al problema dei rifiuti in città: chi abita nei territori limitrofi a Santa Palomba non la pensa così. Da tre anni, i membri di ciascun comitato si riuniscono negli spazi dell’azienda agricola Certosa: quasi tutti vigneti e filare, un oliveto, un piccolo frutteto e un orto per le esigenze di famiglia e amici.
“Facciamo ancora le cose all’antica, produciamo solo vino e viviamo qui sopra”, spiega Antonio, uno dei due fratelli, indicando il casale. Al piano superiore si trova la loro abitazione, al piano terra la cantina e, tutto intorno, la distesa di vigne. Un angolo verde dietro le strutture industriali di Santa Palomba.

“L’attività – racconta Antonio – era stata avviata da nostro padre. Coltiviamo vino biodinamico, facendo attenzione al modo in cui lavoriamo la terra”. L’azienda agricola si trova a pochi minuti in macchina dalla stazione di Pomezia-Santa Palomba.
Per raggiungerla si percorre una strada circondata da aziende petrolchimiche e impianti logistici. “Prima non era così” racconta l’imprenditore, che in questa zona ci è cresciuto. “C’era verde ovunque, l’unica area industriale già presente era quella di Pomezia, poi negli anni Novanta si è espansa arrivando anche a Roma”.

L’opposizione all’inceneritore di Santa Palomba si fa resistenza
Alcune aziende agricole continuano a resistere sul territorio. Qui si producono vini, grano, kiwi e altri prodotti, molti dei quali certificati biologici. Il timore di molti imprenditori è che queste produzioni possano perdere la certificazione a causa dell’arrivo dell’impianto di incenerimento.
Maria Rosaria ha una piccola azienda agricola ma è anche la rappresentante del “biodistretto pontino”, un polo agricolo parte integrante dell’Agro pontino che “è una realtà economica e lavorativa fondamentale, composta da centinaia di piccole aziende agricole”, afferma.

Per tutta la durata dell’incontro Maria Rosaria ha digitato sulla tastiera del suo computer, alzando lo sguardo solo di tanto in tanto verso gli altri partecipanti, senza mai intervenire. Verso la fine, però, ha alzato la mano per chiedere la parola. “Non faccio parte di nessun comitato, ma la situazione qui sta degenerando” dice. La donna racconta di essersi resa conto della gravità della situazione quando ha contattato l’ente certificatore per esprimere i suoi dubbi sugli effetti che la costruzione del termovalorizzatore avrebbe potuto avere sulla certificazione dei suoi prodotti.
La risposta che ha ricevuto l’ha lasciata perplessa. “Stai tranquilla, la certificazione non te la toglie nessuno. Anche se l’impianto sorgerà entro 5 km, noi seguiamo la normativa europea e non quella italiana più restrittiva. Mi ha persino raccontato di un’azienda a Bologna situata praticamente accanto a un termovalorizzatore, e comunque certificata”.
Qui entra in gioco un’altra questione fondamentale: la preoccupazione per la salute delle persone. “Io produco grano, e la spiga del grano è un bioaccumulatore particolarmente vulnerabile, perché le sue scanalature trattengono le particelle sottili (PM), in particolare le più leggere e volatili, che gli impianti moderni emettono in quantità. Queste micro-polveri viaggiano ben oltre i 5 km e si depositano nel suolo, contaminando ciò che cresce su quella terra. Quindi, sì: il mio grano sarà biologico secondo la legge, ma non potrà mai essere considerato sano”.
Cosa ne pensa l’Europa?
È anche per questo che i comitati hanno presentato ricorso al Consiglio di Stato, contestando il piano del sindaco e Commissario Straordinario Roberto Gualtieri, che nel dicembre 2022 aveva autorizzato la costruzione dell’inceneritore. Ma anche in questo caso, tutte le obiezioni sono state respinte: il Consiglio ha confermato la validità della procedura abbreviata, la legittimità della scelta del sito (pur avvenuta prima della conclusione della Valutazione Ambientale Strategica) e la piena competenza del Commissario, in base al decreto-legge n50 del 2022.
Il caso ha superato i confini nazionali, arrivando fino a Bruxelles. Il 18 marzo 2025, il portavoce del comitato “No Inceneritori”, Alessandro Lepidini, è stato ascoltato dalla commissione petizioni del parlamento europeo. Ex assessore all’Ambiente del Municipio IX, si era dimesso nel 2022 proprio in opposizione al progetto. La sua petizione – la n. 1263/2024 – è stata sottoscritta da oltre 13 mila cittadini, tra cui anche gli eurodeputati Ignazio Marino (Europa Verde) e Dario Tamburrano (Movimento 5 Stelle).
Secondo Tamburrano, un impianto da 600mila tonnellate l’anno non è compatibile con gli obiettivi europei di economia circolare e neutralità climatica al 2050. “L’impianto emetterà circa 400 mila tonnellate di CO₂ all’anno, e solo lo 0,1 per cento sarà sottoposto a cattura – ammesso che il sistema funzioni”, ha dichiarato. Inoltre entro il 2026 la commissione europea valuterà se inserire anche gli inceneritori nel sistema EU ETS, il mercato delle emissioni: se ciò accadesse, il costo per la collettività potrebbe salire di circa 40 milioni di euro l’anno, per trent’anni. Tamburrano sottolinea anche un dato strutturale: Roma differenzia poco.
Nel 2023 la città ha raggiunto il 49 per cento di raccolta differenziata, contro una media nazionale del 66,6 (e oltre il 70 per cento al Nord). “Bisognerebbe partire da qui, non da un inceneritore. A meno che non si voglia perpetuare l’attuale sistema“, conclude.
Dopo l’udienza, la commissione petizioni ha inviato una lettera ufficiale al sindaco Gualtieri e al rappresentante permanente d’Italia presso l’Ue. Firmata dal presidente Bogdan Rzońca, la missiva solleva dubbi sostanziali: aumento delle emissioni di CO₂, rilascio di sostanze tossiche, rischi per la salute pubblica. E pone una domanda più profonda: ha senso costruire un impianto che resterà attivo fino al 2062, quando l’Europa punta alla neutralità climatica entro il 2050?
D’altra parte c’è chi continua a sostenere la termovalorizzazione come risposta concreta alla gestione dei rifiuti urbani. ESWET, l’associazione europea dei produttori di tecnologie per il waste-to-energy (WtE, la termovalorizzazione), ritiene che a Roma “la capacità locale di smaltimento in discarica è limitata, in quanto la discarica di Malagrotta è stata chiusa nel 2013. Roma esporta i rifiuti perché siano trattati altrove: l’88 per cento dei rifiuti residui indifferenziati lascia la città per essere trattato nel Lazio, in altre regioni italiane o all’estero”, spiega Patrick Clerens, segretario generale.
Dal 2023 l’impianto di Rocca Cencia opera come semplice trituratore e stazione di trasferimento, senza più trattamento biologico, probabilmente in preparazione al Giubileo del 2025. Per Clerens, un impianto “waste to energy” nella Capitale rappresenterebbe “una soluzione pragmatica e vantaggiosa dal punto di vista ambientale”, utile a ridurre i trasporti e contenere le emissioni di CO₂, particolato e NOₓ.
Il TMB ha subito più incendi negli ultimi anni. Sebbene le cause non siano chiare, Clerens cita due studi statunitensi secondo cui “nel 2022, circa 3.000 incendi nelle discariche degli Stati Uniti hanno prodotto circa 1.500 g TEQ di diossine, rispetto ai soli 3 g prodotti da 3.000 impianti di incenerimento”. Una dinamica analoga, osserva, si riscontra anche in Europa.
Secondo Clerens, impianti come quelli di Vienna e Copenaghen dimostrano che è possibile integrare con successo la termovalorizzazione nei contesti urbani. “Ogni impianto europeo deve rispettare limiti di emissione tra i più severi, basati sulle migliori tecniche disponibili (Best Available Techniques – BAT) definite a livello Ue”.
Clerens insiste infine sull’importanza della trasparenza e del coinvolgimento dei cittadini. “Per il successo di questi progetti, è essenziale il dialogo con la popolazione locale“. Dialogo che, però, a Santa Palomba – dove dovrebbe sorgere l’impianto romano – non è ancora stato avviato, nonostante lettere, appelli e petizioni.
Sia Acea sia il Comune di Roma sono stati contattati per la redazione di questo articolo ma non abbiamo ricevuto risposta.
L’articolo su Economia Circolare
Questo lavoro è frutto dei cinque workshop dinamici organizzati durante l’edizione 2025 del festival Le parole giuste e supportati dal programma di borse di studio “Professional Development for Environmental Journalism” di Journalismfund Europe.

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