Il 22 gennaio 2025, un uomo armato di coltello ha ucciso due persone in un parco della città di Aschaffenburg, in Germania. Il sospettato, 28 anni noto per avere già commesso atti di violenza, ha origini afgane. L’evento ha immediatamente richiamato alla memoria gli attentati di Solingen e di Mannheim, infiammando gli animi di una società tedesca già molto tesa per via delle elezioni. La provenienza geografica dei presunti responsabili ha contribuito ad alimentare una retorica sempre più diffusa in Germania, dove questi episodi sarebbero il risultato dell’immigrazione massiccia e incontrollata di individui intrinsecamente violenti.
Questo sentimento è alimentato dalla convinzione diffusa che esista una correlazione tra immigrazione, criminalità, religione e violenza, un pregiudizio di cui abbiamo scritto anche su Voxeurop. Tuttavia, un elemento essenziale sembra sfuggire agli occhi dei media generalisti e dei politici più miopi: il legame tra le aggressioni e la sofferenza psicologica.
Poco dopo l'attacco di Aschaffenburg, in un’intervista su Infomigrants si legge che l'aggressore “soffriva di disturbi mentali ed è stato ricoverato dopo l'arresto, almeno secondo quanto riportato dalle autorità. Disturbi mentali sono stati diagnosticati anche a un uomo afghano che, lo scorso maggio, aveva aggredito un candidato di estrema destra a Mannheim, uccidendo un poliziotto”.
Secondo Ulrich Wagner, professore di psicologia sociale all'Università di Marburgo, gli aggressori potrebbero soffrire “di gravi problemi psicologici, indipendentemente dal loro percorso migratorio”. Pur precisando di non voler giustificare le loro azioni, Wagner invita a riflettere sulle cause profonde come “le loro condizioni di vita in Germania” che hanno “evidentemente aggravato tali disturbi mentali”. Tra i fattori critici emergono la difficoltà nell’accesso alle terapie, la mancanza di risorse, la sistemazione in alloggi di prima accoglienza privi di privacy, lo stile di vita poco attivo, l’impossibilità di strutturare la propria vita attraverso il lavoro o le interazioni sociali...e la lista potrebbe proseguire.
Senza voler giustificare gli aggressori, la scarsa attenzione riservata alle loro vulnerabilità psicologiche fa emergere un'altra questione: il trauma rappresentato dalla migrazione.
Sul Tagesspiegel, Nora Ederer intervista la psichiatra e professoressa di psichiatria interculturale Meryam Schouler-Ocak a proposito della salute mentale dei rifugiati in Germania. Anche la psichiatra conferma la gravità del problema, citando come fattori aggravanti la barriera linguistica, le discriminazioni subite dai migranti e la complessa burocrazia del sistema di accoglienza. Schouler-Ocak sottolinea inoltre che i fondi destinati all'accoglienza non sono distribuiti equamente: “Gli interpreti non sono previsti dal sistema. Nella nostra clinica, li paghiamo con il nostro budget”, aggiungendo che "questo è anche uno dei motivi per cui alcuni psicologi, quando possono scegliere, preferiscono occuparsi di pazienti con cui ci sono minori difficoltà.”
Per molti migranti, i problemi non iniziano con l’arrivo nel paese ospitante ma anche il viaggio stesso contribuisce in modo significativo al deterioramento della loro salute mentale. Un’analisi, condotta dal Center for Strategic and International Studies (CSIS) e riportata su iMEdD Lab, esamina nel dettaglio il fenomeno del “collo di bottiglia” che si verifica tra Tunisia e Italia. In questa zona, il percorso migratorio di molte persone subisce un’interruzione, spesso a causa delle politiche europee di esternalizzazione delle frontiere, le cui conseguenze sono tutt'altro che insignificanti: “Bloccati in un circolo vizioso tra la Tunisia e Lampedusa, senza alternative sicure all'orizzonte, molti migranti subiscono un ulteriore trauma”.
Citando uno studio del 2019 sulla salute mentale dei rifugiati in Tunisia, l'analisi del CSIS sottolinea che “seppur la migrazione non sia di per sé la causa diretta di un trauma, essa rappresenta un cambiamento di vita radicale che richiede un profondo adattamento. L'impatto che la vita di un migrante può avere sulla sua salute mentale si evolve nel tempo, poiché la migrazione è caratterizzata da periodi di relativo equilibrio e altri di forte stress”.
Il legame tra precarietà e salute mentale è ormai ampiamente riconosciuto. Per quanto riguarda i disturbi depressivi, per esempio, un'analisi di Eurostat del 2019 evidenzia che “le persone appartenenti al primo quintile di reddito (ovvero il 20 percento della popolazione con il reddito più basso) sono le più propense a segnalare sintomi depressivi”. Tra queste, il 10,6 percento soffrirebbe effettivamente di tali disturbi, una percentuale “poco più di tre volte superiore a quella registrata tra le persone appartenenti al quintile di reddito più alto”.
Anche le conseguenze psicosociali della migrazione sono ancora poco conosciute. Il solo fatto di lasciare il proprio paese per un periodo indefinito, lasciandosi alle spalle la vita precedente, potrebbe causare un “lutto migratorio” e, successivamente, una condizione di ansia reattiva. Sulla rivista spagnola Ethic, Ana Mangas ha definito quest'ultima “sindrome di Ulisse”, riprendendo il termine coniato dallo psichiatra, professore e autore Joseba Achotegui.
Come spiega Mangas, la sindrome di Ulisse non è attualmente riconosciuta come un disturbo mentale e va perciò distinta da patologie come la depressione. In un’intervista con Mangas, Achotegui precisa che questa sindrome può essere innescata da “solitudine forzata, paura, senso di impotenza e mancanza di opportunità”, mentre i sintomi più comuni includono tristezza, ansia, insonnia, dolori muscolari, disturbi digestivi e problemi di memoria.
Anche le condizioni di accoglienza possono aggravare questo stress: il peso delle procedure amministrative, la necessità di raccontare più volte esperienze traumatiche, la discriminazione. Secondo Mangas, per contrastare la sindrome di Ulisse è fondamentale approfondire il legame tra migrazione e salute mentale, istituire un sistema sanitario equo accessibile per tutti e, in ultima analisi, '“umanizzare” la migrazione.
Sebbene siano disponibili alcuni studi sui disturbi mentali che colpiscono i migranti, essi risultano ancora frammentari dal punto di vista geografico e temporale. Tuttavia, è comunque possibile delineare un quadro generale della situazione.
In un’analisi di 21 studi sull'argomento, Farah Abdulrahman, Mary Birken, Naomi Glover, Miranda Holliday e Cornelius Katona dello University College di Londra hanno evidenziato l’impatto delle condizioni di alloggio temporaneo sulla salute mentale dei migranti. La difficoltà di adattamento a un nuovo ambiente, la sensazione di prigionia, l’inattività, l’erosione del senso di sicurezza e fiducia sono tutti fattori che, secondo il gruppo di ricerca, contribuiscono ad aggravare il peso della migrazione forzata e le sue conseguenze sulla salute.
Se, come dimostra la loro ricerca, la maggior parte delle persone migranti soffre di disturbi mentali (ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress), ciò non significa che tutti i migranti siano dei potenziali aggressori a causa del bagaglio traumatico. Tuttavia, rimane importante esplorare il legame tra le aggressioni, in particolare quelle che attirano l’attenzione dei media, e la salute mentale degli indagati.
Troppo spesso, infatti, le motivazioni alla base di questi attacchi sono state spiegate esclusivamente attraverso il profilo personale, etnico e religioso degli aggressori, ignorando alcuni aspetti fondamentali: la loro vulnerabilità sociale, psicologica ed economica e, in ultima analisi, il carattere profondamente sistemico della sofferenza vissuta dai migranti.
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