"Speranza" - "No"

Tra Obama e Romney votiamo per noi

Il risultato delle elezioni del 6 novembre non cambierà molto nei rapporti transatlantici: il riavvicinamento con gli Stati Uniti dipende soprattutto dalla capacità dell'Europa di tirarsi fuori dalla crisi.

Pubblicato il 5 Novembre 2012
"Speranza" - "No"

Domani gli americani andranno alle urne accompagnati da una provocazione dell'ultima ora del candidato Mitt Romney sull'Europa. «Italia, Spagna e Grecia» sono il modello Obama, il simbolo della follia social-fiscale europea.

Siamo all'Euro bashing? Che l'Europa diventi una delle grandi tematiche "strategiche" di cui si discuterà nei prossimi mesi se dovesse vincere Romney? E se vincesse Obama? È pro o contro l'Europa? Non era stato forse lui a definirsi il "primo presidente del Pacifico" segnando una svolta nel dialogo transatlantico? Cosa farà in un secondo mandato? Tornerà a fare il suo viaggio inaugurale all'estero in Asia relegando l'Europa in secondo piano?

Interrogativi leciti. Ma parlando di Europa, prima ignorata nei dibattiti elettorali, poi ripescata da Romney per essere dileggiata, si impone un distinguo fra retorica elettorale, grandi movimenti tendenziali e realtà dei fatti.

Se guardiamo ai numeri, si evince che l'intreccio fra Europa e Stati Uniti è talmente forte e ramificato da rendere assurde queste polemiche. Gli investimenti diretti reciproci Usa-Ue sono di molte volte superiori a quelli di Cina e Giappone combinati; l'interscambio commerciale è salito a 636 miliardi di dollari nel 2011 con un aumento del 14% e l'economia dei due blocchi transatlantici produce un giro d'affari di 5mila miliardi di dollari e dà lavoro a 15 milioni di persone; la ricerca e sviluppo combinata vale il 65% dell'R&S globale.

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L'economia transatlantica rappresenta il 54% dell'output mondiale e il 40% del potere d'acquisto; se sarà rimosso il 50% delle barriere commerciali, l'interscambio potrebbe aumentare di 200 miliardi di dollari. Per non parlare della solidità del Patto atlantico, una delle più grandi alleanze della storia. E dunque cominciamo con il liquidare Romney: la sua retorica è irritante, perché strumentale. Ma è passeggera, ideologica, funzionale alle elezioni americane. Anche perché il candidato repubblicano in Europa ha investito, ha aperto anche in Italia e ha sempre fatto lauti profitti. Se vincesse, sulla retorica prevarrà il pragmatismo.

Dal punto di vista politico l'America di Romney non farà molto di diverso da quello che ha fatto Obama. Anche perché la Fed, principale attore nel rapporto bilaterale per gestire la crisi finanziaria, resterà sotto il controllo di Ben Bernanke, nel segno della continuità e del coordinamento.

E Obama? È vero, all'inizio ha messo il Pacifico davanti all'Europa. Ma ha capito quasi subito che i grandi problemi geopolitici, dalla stabilità mediterranea a quelli economici, passano per l'altra sponda dell'Atlantico, quella sponda dove l'America trova le sue prime radici etniche, ideologiche e culturali. E rapidamente il presidente ha cambiato timbro.

Diversa è la questione del grande movimento tendenziale: è vero che le grandi economie continentali, quella cinese e quella americana, ci stanno superando. Ma starà a noi tenere il passo, realizzare le architetture unitarie disegnate per esempio durante il G-20 di Los Cabos, procedere con istituzioni "federali", deregolamentare, eliminare rigidità strutturali. Perché, se da una parte ci risentiamo quando nei dibattiti presidenziali l'Europa viene ignorata, dall'altra non possiamo offenderci se, parlando di noi, emergono critiche.

Un fondo di verità nei messaggi estremizzati di Romney e di Obama - quando ci accusa di lentezza per risolvere la crisi economica - c'è: lo Stato gioca un ruolo eccessivo nelle nostre economie e il nostro modello competitivo fatica a tenere il passo con la concorrenza globale. Anche questi sono fatti. Di cui dovremo tenere conto, indipendetemente dalle strumentalizzazioni elettorali o post-elettorali più o meno aggressive o antipatiche di Romney e di Obama.

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