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Trent’anni dopo, che cosa rimane di Schengen

Si sono celebrati in questi giorni i trent’anni dalla firma dell’accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone in Europa eppure mai come ora questa conquista, che è anche uno dei principi cardine dell’Unione europea e uno degli aspetti dell’Ue più apprezzati dai cittadini europei, è rimessa in discussione. E per di più per motivi sbagliati.

Pubblicato il 19 Giugno 2015 alle 21:51

Che i movimenti xenofobi e nazionalisti europei reagiscano al recente aumento del numero dei rifugiati e dei migranti che cercano asilo o fuggono dalle guerre e dalla miseria tentando la loro fortuna in Europa (più 870 per cento in un anno secondo l’ACNUR in Grecia) non dovrebbe stupire – in fondo, l’ostilità nei confronti degli stranieri fa parte, piaccia o meno, del loro core business. E quindi il fatto che il governo nazional-populista ungherese abbia annunciato di voler costruire una barriera di 175 chilometri al confine con la Serbia, benché deplorevole, è quasi comprensibile.

Quel che invece è nuovo è che i partiti cosidetti democratici di destra o di sinistra, al potere nella stragrande maggioranza dei paesi europei, si stanno allineando sulle stesse posizioni e reagiscono alla sfida che comporta questo afflusso in modo sempre più duro e isolato. Convinti di rispondere a un’opinione pubblica che appare ipnotizzata dai discorsi xenofobi, sembrano incapaci di compiere un minimo di pedagogia – o di leggere le statistiche sul rapporto costi-benefici dell’immigrazione – e di dar prova di quella solidarietà che dovrebbe essere uno dei valori fondanti dell’Unione.

Così, se la leader del Front national francese Marine Le Pen rivendica l’uscita pura e semplice della Francia dall'accordo di libera circolazione di Schengen (come pure dall’euro), sostenendo che l’assenza di controlli alle frontiere rafforza l’immigrazione clandestina, anche i Repubblicani, come si sono ribattezzati i neogollisti di Nicolas Sarkozy, sembrano allineati su posizioni molto simili. Il sindaco di Nizza Christian Estrosi ha così affermato di volere “riformare Schengen, a costo di uscirne”, mentre Sarkozy ha chiesto tempo fa uno Schengen 2, che dia agli stati la possibilità di sospendere la sua applicazione per una durata indeterminata se i controlli alle frontiere di uno dei paesi membri si rivelano “carenti”.

Come ricorda Le Monde però, “riformare o uscire da Schengen richiederebbe il consenso all’unanimità dei 26 paesi membri dell’accordo”, oltre a rappresentare un notevole costo, tra agenti incaricati di controllare una per una le persone che entrano nel paese e procedure per i visti, e mancati introiti dovuti al calo del turismo.

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Benché non abbia chiesto la sospensione di Schengen, anche la sinistra, al potere, ha dato ultimamente del trattato un’interpretazione per lo meno restrittiva, controllando e respingendo sistematicamente verso l’Italia i migranti che entrano in Francia dai valichi di confine. E provocando un braccio di ferro diplomatico che ricorda quello del 2011, quando l’allora presidente Sarkozy sospese il trattato di Schengen – ufficialmente per evitare “turbative all’ordine pubblico” – per impedire ai profughi provenienti da Libia e Tunisia di recarsi in Francia. All’epoca Roma rispose concedendo dei permessi di soggiorno temporanei a 20mila profughi, consentendo loro di ritrovare amici e parenti negli altri paesi europei. Una misura simile a quella minacciata dal premier italiano Matteo Renzi in questi giorni.

Parigi sostiene di esercitare un suo diritto, rimandando in Italia i migranti privi di visto e i richiedenti asilo, poiché, afferma, il regolamento cosidetto di Dublino sul diritto d’asilo prevede che le domande vengano esaminate dal paese nel quale il richiedente è arrivato. L’Italia, che deve gestire la stragrande maggioranza delle domande di asilo e degli sbarchi, insiste affinché i paesi dove i migranti sono destinati facciano la loro parte e ad applicare sin da ora il piano di ripartizione di rifugiati e richiedenti asilo presentato dalla Commissione europea a maggio.

C’è poi un altro aspetto che spiega in parte l’atteggiamento francese: molti dei rifugiati che entrano in Francia dall’Italia si sono installati a Parigi, aspettando che la loro domanda di asilo venga esaminata o l’occasione di recarsi nel Regno Unito. Il loro caso era rimasto relativamente discreto fino al 28 maggio, quando la polizia ha smantellato un accampamento Porte de la Chapelle, a nord di Parigi. Da allora, centinaia di persone girovagano per la capitale, passando per diversi luoghi occupati con l’aiuto di diverse associazioni ed evacuati uno dopo l’latro dalle forze dell’ordine, senza che le autorità siano state capaci di trovare una soluzione.

Il comune, con a capo la sindaca socialista Anne Hidalgo, vorrebbe accoglierli in appositi centri di transito per mostrare la propria differenza rispetto alla politica della destra; il governo tende la mano ai migranti “buoni” – i richiedenti asilo – per i quali ha annunciato la messa a disposizione di oltre diecimila posti, e mostra di voler reprimere quelli “cattivi” – i migranti economici – espellendone il più possibile, per non prestare il fianco all’accusa di “lassismo” provenienti dalla destra. I ritardi subiti dal disegno di legge sul diritto d’asilo attualmente all’esame del parlamento francese sono un riflesso delle tensioni all’interno della stessa maggioranza. Si spiega anche così l’atteggiamento di Parigi nei confronti dell’Italia.

Le tensioni bilaterali tra stati membri si sono riflesse in sede europea, con il mancato accordo tra i ministri dell’interno dei Ventotto sul piano di ripartizione. Caldeggiato da Italia e Grecia, in prima linea sul fronte degli sbarchi, ma anche dalla Germania, che deve gestire il maggior numero di domande di asilo, il piano è criticato da altri paesi molto esposti, come l’Ungheria e la Francia. Se Francia, Germania e Italia sono ora d’accordo per sostenere il dispositivo, a condizione che venga completato da misure che consentano un esame rapido dello status (migrante economico o richiedente asilo) delle persone sbarcate in Italia e in Grecia, altri paesi, come la Spagna, rifiutano il carattere obbligatorio dell’accoglienza e sostengono il principio del volontariato.

Alla divergenza delle posizioni si aggiunge poi il fatto che molti responsabili politici hanno un linguaggio conciliante in sede europea, salvo poi mostrarsi fermi e decisi dinanzi alla stampa e all’opinione pubblica nazionale. I capi di stato e di governo dovrebbero riprendere il filo della discussione durante il vertice del 25-26 giugno, a Bruxelles, mentre la presidenza di turno dell’Unione, che passa al Lussemburgo il 1 luglio, spera di giungere a un accordo entro fine luglio. Spera.

Illustrazione di Uber

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